«In una Toscana che si fa laboratorio per l’aggregazione dei piccoli Comuni ci credo. Nella scorsa legislatura ci sono state nove fusioni. In questo primo spazio di legislatura stiamo lentamente andando avanti, anche con soluzioni giurisprudenziali innovative, come nel Casentino. Dove possiamo arrivare? Ragionevolmente penso a duecentocinquanta, duecentocinquantacinque Comuni». Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, aprendo i lavori del seminario sulla ricerca “Associazionismo e fusioni dei Comuni: punti di forza e criticità delle politiche di incentivo” svoltosi in Sala delle Feste di Palazzo Bastogi a Firenze.
La ricerca è stata commissionata all’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (Irpet) dalla commissione Affari istituzionali, presieduta da Giacomo Bugliani. “E’ molto importante che questa tematica venga affrontata a livello nazionale – ha aggiunto Giani –. Insieme ad un’altra, forse non popolare, ma che non può essere lasciata sotto silenzio. I sindaci dei piccoli Comuni per il loro lavoro non possono ricevere 500 euro al mese. In Toscana le amministrazioni comunali sotto i cinquemila abitanti sono 121».
Il direttore di Irpet, Stefano Casini Benvenuti, ha ricordato che alla base del lavoro c’è la vecchia idea di «una Toscana che vive e lavora nei suoi sistemi locali», e spesso tali sistemi non coincidono con i confini amministrativi dei comuni. L’elemento nuovo di questa ricerca sono i focus group, che hanno permesso di incontrare i territori e verificare che cosa è accaduto, con quali elementi positivi e quali negativi. La ricercatrice Irpef, Sabrina Iommi ha illustrato il suo lavoro, ricordando che la frammentazione genera diseconomie, una cattiva allocazione delle risorse, che servono soprattutto per il funzionamento della macchina amministrativa. Le risorse umane disponibili spesso sono di bassa qualificazione ed avanti negli anni, non in grado di far fronte alla crescente complessità.
«La frammentazione si affronta con un mix di vincoli, opportunità, incentivi – ha sottolineato Iommi – Il risultato è frutto di un equilibrio tra questi tre fattori». Il vincolo è dato dall’esistenza di una normativa che, in certi casi, rende obbligatoria per i Comuni più piccoli la gestione associata delle funzioni fondamentali. Il problema è che da sette anni la data di obbligo slitta di un anno ad ogni legge Finanziaria. Su lato delle opportunità, nelle fusioni il tema più controverso è il conteggio dei voti nel referendum consultivo, se deve avvenire cioè per singolo Comune o nel complesso del territorio. Nel primo caso il Comune più piccolo ha una sorta di potere decisionale. Nel secondo gli incentivi sono diversi. Le unioni di Comuni in Toscana nel 2015 hanno ricevuto in media 500.000 euro ciascuna. Le fusioni ricevono risorse importanti, sia di livello nazionale (40% trasferimenti erariali ricevuti nel 2010 per dieci anni) che regionale (250.000 euro per cinque anni). Un Comune che raggiunge dodicimila abitanti nel 2013 ha ricevuto 1.300.000 euro.
«Sulle fusioni la Toscana è stata una delle regioni più vivaci a livello nazionale – ha rilevato Iommi – I referendum sono stati 22, la metà con esito positivo. I numeri sono però modesti rispetto ai potenziali beneficiari». Quelli che hanno avuto esito positivo presentano caratteristiche comuni (stesso ambito socioeconomico, una storia di collaborazione alle spalle, distanza, superficie ecc), ma nessuna di queste di per sé è garanzia di successo. I focus group sono stati cinque: Amiata, Elba, Lunigiana, Valdarno Superiore, cui hanno partecipato sindaci, assessori, rappresentanti delle categorie economiche, associazioni, comitati locali e associazioni.
«Abbiamo registrato una polarizzazione tra le opinioni degli amministratori locali e quelle delle imprese – ha sottolineato Iommi – E’ un campanello di allarme: l’attuale assetto istituzionale confligge con la realtà delle imprese». I primi individuano la causa del fallimento del referendum nelle paure dei cittadini; i secondi mostrano una diffusa sfiducia nella capacità dei governi di riformarsi da soli, per iniziativa di quella stessa classe di amministratori locali che viene penalizzata dalla diminuzione del numero di cariche disponibili. Dalle interviste emerge chiaramente la distanza tra la visione degli amministratori e quella delle imprese: gli enti locali nel loro assetto e funzionamento attuali vengono percepiti sempre più dalle imprese non come un “alleato” per la promozione di processi di sviluppo locale, ma come un ostacolo. Se il problema fondamentale è superare il timore dei cittadini del Comune più piccolo di finire marginalizzati, è necessario dare maggiori garanzie in questo senso, prevedendo in proposito misure di diversa “intensità”: si potrebbe introdurre un vincolo di destinazione per almeno una parte degli incentivi finanziari alla fusione, oppure una parte delle risorse finanziarie potrebbe essere riconvertita in assistenza tecnica specialistica per la redazione di un progetto molto dettagliato del nuovo Comune o ancora si potrebbero prevedere accordi con i soggetti responsabili degli altri servizi territoriali (posta, scuola, carabinieri, ecc.) finalizzati a mantenere l’offerta esistente o a riorganizzarla solo in accordo con la popolazione».