Non c’è più religione. Nemmeno quella laica che si intendeva professare con il gioco del calcio. Religione – a detta dello scrittore catalano Manuel Vásquez Montalbán – “in cerca del suo Dio… con i suoi riti e le sue cattedrali, le gioie, le delusioni”. Al pari di tutte le religioni, il credo calcistico è ora avvilito dalle proprie contraddizioni, tra annunci di nobili intenti e una prassi che continuamente li smentisce. Preghiamo, dunque, per nostro fratello football, vittima (ma non innocente) di business, corruzione, ingaggi e debiti stellari, ragazzi dai piedi d’oro a discapito dei materiali scadenti che, invece, foderano il loro il cervello, branchi di supporter che, pur al netto dei delinquenti che vi si annidano, rappresentano ormai tutt’altra cosa dall’essere appassionati sostenitori di una fede (parola comunque impegnativa per qualcosa che sarebbe nata come un gioco). Fine, dunque, anche di quell’epica moderna che intorno al calcio era stata creata grazie alle penne di grandi giornalisti e scrittori. Figuratevi che Albert Camus si era spinto a dire che tutto quello che sapeva della vita lo aveva appreso dal pallone. Pier Paolo Pasolini non ebbe dubbi nel ritenere il calcio l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, lo spettacolo che aveva sostituito il teatro. L’autore degli Scritti corsari dedicò giusto una di quelle pagine al sistema dei segni contenuti nel football, paragonabile al linguaggio scritto-parlato, con i fonemi che grosso modo sono 22 come i “podemi” (cioè i giocatori) i quali hanno una loro sintassi, infiniti fraseggi, un discorso (la partita) che migliaia di persone sono chiamate a decifrare. E Pasolini non mancò la metafora letteraria nemmeno quando si trattò di fare considerazioni tecniche sul calcio praticato in Europa e in Sudamerica: il gioco di squadra degli europei, tutto organizzazione e tecnicismi, era prosa; la fantasia dei solisti sudamericani pura poesia. Oggi il racconto epico del calcio si è interrotto per mancanza di eroi e di vicende degne di tale aura. La cronaca ha avuto il sopravvento sull’epos. Il linguaggio si è appiattito. Stante la situazione non è più possibile glorificare alcuno e nemmeno praticare quella sorniona, colta ironia con cui Gianni Brera intesseva i suoi racconti, fondando un modo nuovo di narrare le imprese sportive e, non di meno, di guardare allo sport in maniera divertita e intelligente. Per usare uno dei sorprendenti neologismi dello stesso Brera, confidiamo allora nella dea Eupalla, protettrice del calcio e del bel gioco, affinché questo sport ritrovi dignità e passioni autentiche. Un compassato tifoso, il poeta Eugenio Montale, diceva di sognare, a volte, che nessuno in tutto il mondo avrebbe fatto più gol. Ma il calcio senza gol non sarebbe niente – continuava il poeta – anche se non sopportava la televisione che mostrava solo i gol, privando gli spettatori della bellezza di tutto il resto: l’attesa, le paure, gli scontri. Ecco, questo è il calcio di cui anche noi chiederemmo grazia alla dea Eupalla .