Per coloro che amano la canzone, il pop, la musica leggera e quella pesante, quasi fossero, quei generi, kili da bilanciere (beh, oggi, anche l’anima ha da essere palestrata)…, il Festival di Sanremo risulta imperdibile. Magari perché l’infiorata kermesse rappresenta l’opposto della musica che veramente ci piace o, forse, perché stupisce quel dispendio di energie – bravi musicisti, luci e scenografie imponenti, autori grandi firme – finalizzato a così poco. Accade un po’ come quando ai matrimoni qualcuno si premura di informare gli invitati quanto sia costato il vestito della sposa (un’esagerazione!) mentre la poverina incede goffa e inadeguata nel suo tripudio di haute couture, e la mamma piange, e il babbo si rianima inspirando dopobarba. Quanto spreco! Del resto, in oltre sessant’anni, sulla fenomenologia di Sanremo hanno scritto più gli studiosi di costume che i critici musicali. Se andiamo a rileggere la cronaca del Festival stilata (e stilettata) da Umberto Eco per l’Espresso nel 1967 (anno del suicidio di Luigi Tenco) ci rendiamo conto che invariata è rimasta la ricetta di questo piatto nazional-popolare. L’insigne semiologo, quasi cinquant’anni fa, annotava che i fenomeni da segnalare erano due: l’arrivo della canzone di protesta e la vittoria di Claudio Villa. Si era insomma cercato di confezionare un prodotto che “funzionasse per il mercato della pace, senza dispiacere a quello delle rose”. Ironizzava Eco che, praticamente, “erano state messe le mutande di Bob Dylan a Nunzio Filogamo”. Ebbene, su tali ambigui scambi di intimo hanno sempre contato la manifestazione sanremese e i suoi protagonisti, fatto salvo chi ha avuto l’ardore di mostrare le mutande proprie, come fece Anna Oxa nel 1999 (alte le note della canzone, bassa la vita del pantalone, malizioso lo slip che appariva in pregiata passamaneria a decorare il coccige). Quanto alla musica va detto che da Sanremo si è sbozzolata una significativa parte della canzone italiana. A momenti è stato da quel palco che hanno mosso innovazione, qualità, epifanie artistiche. Meno negli ultimi tempi, allorché dal Teatro Ariston si prova – sempre con l’equivoco scambio di brache di cui sopra – a inseguire mode e tendenze musicali che hanno origine altrove. Ma pur con contraddizioni e futilità, il senso (o il non senso) di questo show (ché tale è diventato) fu (e continua a essere) bene sintetizzato da Gianni Borgna, quando intitolò il suo primo libro (1980) dedicato al Festival “La grande evasione. Storia del Festival di San Remo – 30 anni di costume italiano”. Evasione e costume, appunto. E tanti, tanti violini.