Io c’ero, potrebbe dire qualcuno, con malcelata tenerezza, dinanzi a una foto d’epoca che mostra un muro di Parigi con su scritto: “una risata vi seppellirà”. Slogan di grande effetto (anche letterario) che il movimento del maggio francese aveva mutuato dall’anarchico ottocentesco Michail Bakunin. Le cose poi si complicarono quando quella risata divenne un ghigno troppo malevolo, fino a perdere completamente il senso dell’ironia. Diciamo che ebbe ragione Freud, il quale già aveva avvertito che il motto di spirito altro non è che un desiderio frustrato, simile al sogno, tant’è che l’umorista “sogna ad occhi aperti”. E noi smettemmo di stare svegli in un sogno per addormentarci dentro la realtà.
Eppure di ironia e di tutti i suoi complementi (comicità, umorismo, sarcasmo) ci sarebbe un gran bisogno. Dovrebbe essere un farmaco fornito gratuitamente dal servizio sanitario nazionale, al pari di quelli contro l’ipertensione.
Proviamo, allora, a fare un discorso serio sul ridere. Tiriamo giù dalle nostre librerie l’acume di Henri Bergson racchiuso nelle pagine del suo libro Il riso. Saggio sul significato del comico per argomentare, ad esempio, quella comicità (il filosofo francese la definisce “castigo sociale”) di cui la comunità degli umani non può fare a meno per individuare, respingere o per lo meno correggere i comportamenti che vanno a minare lo “slancio vitale” con il quale si identifica la vita stessa. Perché il riso costituisce un antidoto a ciò che mette in pericolo le nostre esistenze. Da esso può dipendere, dunque, la sopravvivenza della specie.
Ma c’è di più. L’umorismo è anche lo strumento che fa distinguere il falso dal vero, le incongruenze tra quello che siamo e quello che dovremmo essere. In questo è illuminante Luigi Pirandello (grande teorico dell’umorismo) allorché esemplifica così: “Vedo una vecchia signora coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca e tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere”. Ecco quanto benefico sia un certo ridere ai fini della consapevolezza del proprio essere, di una presa di coscienza che avviene grazie al (sorridente) “sentimento del contrario”. Importante, però, è non ridere da soli. La comicità va socializzata e soprattutto giocata con le parole che bene si prestano alla parodia, al paradosso, al doppio senso e al non-senso. In tal caso è consentito, anzi auspicabile, confondere le parole con i fatti.