Il malcelato entusiasmo con cui ampi settori della sinistra moderata del nostro Paese, quella che ancora pensa con nostalgia a Tony Blair, ha accolto la sconfitta di Jeremy Corbyn nelle ultime elezioni del Regno Unito, fa sinceramente tenerezza.
Come se la sconfitta di un leader europeo con posizioni un po’ più radicali rispetto a quel moderatismo imperante che ha condotto la sinistra nelle ultime elezioni italiane ai suoi minimi storici possa in qualche modo ripagare del dispiacere, persino consolare o finanche essere il segno di un qualche ritorno di consenso in terre ormai abbandonate dal voto popolare.
Ma anche come se queste elezioni nel Regno Unito non fossero in realtà soprattutto un ulteriore referendum sull’Europa, nel quale la vittoria schiacciante dei Conservatori non sia stata soprattutto una conferma della Brexit, che in termini concettuali è al limite posizione molto più prossima all’euroscetticismo della sinistra radicale che non all’euroentusiasmo della sinistra moderata.
E ancora, come se Corbyn non abbia pagato il prezzo delle sue posizioni ondivaghe sull’uscita dall’Europa, e dunque, agli occhi dei Britannici, non abbia peccato semmai di moderatismo e non certo di radicalismo.
Poi verrebbe anche da aggiungere, ma qui il discorso si farebbe troppo lungo, come se la Brexit, e questo voto che la conferma, non siano figli anche della svolta liberista della sinistra negli ultimi decenni, rea di aver lasciato intere fette di popolazione, quelle rimaste escluse dai benefici della globalizzazione, prive di qualsiasi rappresentanza politica, e dunque pronte a scagliarsi contro l’establishment, ovunque declinato, ma soprattutto contro quello europeo.
Invece di esultare per sconfitte apparentemente altrui, ma che in realtà sono il proseguimento delle proprie, sarebbe forse più utile capire come ricostruire un’Europa popolare, di cui i cittadini europei comprendano il senso e la missione.
Un Europa tale che non occorra avere un master alla Bocconi per coglierne i vantaggi.