Chiunque, oggi, vada verso la vecchiaia senza acrimonia, ma con la generosità d’animo che auspica per le nuove generazioni una vita congrua a dirsi felice (pur con tutti i balzelli che l’esistenza pone su questo difficile aggettivo), non può che provare scoramento nel vedere, invece, l’assoluta mancanza di tale prospettiva. Mentre la ‘generazione X’ (gli attuali trentenni con laurea, master, affetti e sogni in standby) di lavoro cercano ancora lavoro, sta entrando sulla scena sociale la ‘generazione Y’, i cosiddetti ‘millennials’. Antropologicamente diversi dai loro predecessori, credono che il mondo sia stato sempre così: perennemente connesso in rete, in vendita nei centri commerciali, ovunque raggiungibile low cost. Convinti, dunque, che il mondo sia nato con loro, ritengono di poterlo un giorno gestire con lo stesso piglio smagato con cui dominano la tecnologia. Dio voglia che anch’essi non restino delusi. Ma ad essere realisti sono arrivati troppo presto pure loro, rispetto al tempo che sarà necessario affinché il nostro Paese riequilibri in termini economici e demografici certi rapporti tra generazioni.
Già qualche anno fa, con un libro molto esplicito, Tito Boeri e Vincenzo Galasso avevano tracciato il quadro di una nazione Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni (Mondadori, 2007) descrivendo in quale modo egoismi e scarsa lungimiranza avessero portato ad una situazione che, tradotta in soldoni, faceva sì che su ogni giovane italiano gravassero 80.000 euro di debito pubblico e 250.000 di debito pensionistico. Suona come un giudizio morale anche il titolo dato da Carlo dell’Aringa e Tiziano Treu ad un corposo saggio dedicato a Giovani senza futuro. Proposte per una nuova politica (Il Mulino, 2011). Qui, dopo un’analisi tanto documentata quanto allarmante (in Italia circa 2 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni restano fuori sia dall’occupazione che da processi di istruzione e formazione) gli autori individuano percorsi possibili per disinnescare un meccanismo decisamente perverso.
I giovani sono stati quindi traditi non privandoli di futuro, ma costringendoli a questo futuro. Si è così tolto loro Il diritto di sognare – per citare un altro libro di Riccardo Petrella (Sperling & Kupfer, 2005) – laddove il sogno costituisce il rifiuto del presente e il desiderio di un futuro che io decido e non quello che altri hanno disposto per me.
Certo è che il futuro non può progettarsi nel precariato (lavorativo, ma, conseguentemente, anche psicologico, esistenziale). Alcuni ricorderanno il racconto (Il mondo deve sapere, ISBN Edizioni, 2006) che Michela Murgia – oggi scrittrice affermata – fece della sua esperienza di operatrice telemarketing nel call center di una multinazionale. Giunse ironicamente a questa conclusione: “Mi daranno il Premio Nobel per il precariato. E me lo leveranno dopo due mesi”. Amaro sarcasmo su una condizione ingiusta ed offensiva. La vita – perché di questo si tratta – non può essere rinnovata con contratti di sei mesi in sei mesi.