Se c’è una cosa da apprezzare del Real Madrid, è che sono gente “che ci tiene”.
Hanno una storia, una tradizione, un prestigio ed un orgoglio: e li ritengono importanti… soprattutto, roba che non si mercanteggia.
Poi, magari, ci lucrano anche loro, e ti rifilano magliette, asciugamani e serviti da caffè, ma di fondo il “Madridismo” è una cosa seria. Sentita.
Al funerale di Boskov, tanto per dirne una, la sua prediletta Sampdoria inviò di controvoglia un consigliere vicario e un paio di telegrammi. Il Real sbarcò con una delegazione di una ventina di persone tra cui dirigenti, tecnici ed ex calciatori, Butragueno in testa.
Grandeur, senso dell’onore e un ciccino di supponenza…Don Alfredo Di Stefano, i segni distintivi del Madridismo li ha incarnati tutti. In più, la sua statura di calciatore gli ha permesso alla fine di diventarne una specie di “santino”. E se non un “Santino” (che suona male), senz’altro un punto di riferimento per tutti: dirigenti, tifosi e calciatori. E quando nella loro sontuosa campagna acquisti sbarcava un “galacticos”, che fosse Figo, o Zidane, o Cristiano Ronaldo, tutti a pendere dalle labbra di Don Alfredo, e del giudizio che avrebbe formulato. Pur oltraottantenne, era una specie di cassazione: “bueno” sussurrava il vegliardo, e tutto il Bernabeu tirava un sospiro di sollievo.
Non stiamo a elencare chi era Di Stefano come calciatore.
Nessuno di noi lo ha mai visto giocare, se non in rari fotogrammi in bianco e nero di cattiva qualità. Ci fidiamo a scatola chiusa dei risultati e, soprattutto, delle vittorie ottenute. E anche del giudizio di chi, invece, lo ha apprezzato dal vivo: Gianni Brera, per esempio, lo considerava il più bravo di sempre: addirittura superiore a Pelè, a Maradona e a tutto il resto… Perché al “maestro” piacevano i calciatori completi, non solo il grande goleador. E Di Stefano era prima di tutto quello, un direttore d’orchestra. Di un’orchestra sublime, d’accordo (che tale era il Real degli anni 50) , ma pur sempre bisognosa di un leader. C’erano Gento, Kopa, Puskas, Rial, Santamaria che suonavano melodie, ma il primo violino rimaneva Don Alfredo.
La sua storia, poi, è addirittura romanzesca. Chi ama la letteratura latinoamericana può divertirsi con gli aneddoti della famosa “Maquina”, come era soprannominato il River Plate degli anni 40. Uno squadrone che vinceva tutto e che aveva in attacco Lostau, Labruna, il giovane Di Stefano, Moreno e il celeberrimo Adolfo Pedernera. Fate conto una linea, dal sette all’undici con Messi, Cristiano, Ibra, Robben e Falcao… Chi ha visto giocare “La Maquina” giura, senza mezzi termini, che quella, e non altre, sia stata la più formidabile meraviglia mai vista su un campo di calcio.
E’ vero che da quella parte del mondo tendono sempre ad esagerare: ma è il loro bello, almeno dal punto di vista della letteratura sportiva.
Poi la fuga in Colombia, dai Millonarios di Bogotà (che pagavano in smeraldi) e l’epopea del grande Real, con le cinque coppe di fila, risultati da fantascienza ma anche un potere politico-sportivo fortissimo. Così prepotente che la Fiorentina di Sarti-Magnini-Cervato fu letteralmente gambizzata dall’arbitro, nella drammatica finale del 57 (127000 spettatori!).
Buon viaggio, Don Alfredo.
Se il paradiso esiste, adesso ha una gran linea d’attacco.