La poesia – lo sanno i suoi artefici e fruitori – abita la zona più estrema del linguaggio. In quella zona franca dove si riesce finalmente a dire anche l’indicibile, il non-ancora-detto. O, più semplicemente, a pronunciare il già-detto, però con l’afflato della novità. E’ là che si trovano le parole ‘giuste’ per renderci consapevoli che quanto accade nella nostra vita è molto più di ciò che solitamente riusciamo a dire. Ma questo trovarsi ‘al confine’ non significa – come vuole opinione comune – che la poesia sia fuori dalla realtà. Anzi, costituisce l’attrezzo per scandagliare il profondo (e lo sprofondo) dell’esperienza umana; per rivelarne contraddizioni, tremori, il peggio e il sublime. Di conseguenza il poeta sarà il ‘pubblico ufficiale’ che di sua mano verga il salvacondotto (il guidaticum) con cui ci sia possibile attraversare quella regione, ovvero percorrere la nostra porzione d’esistenza (individuale e storica) e poter giungere a dire (giustappunto con le parole di un poeta) “confesso che ho vissuto”. Da qui nasce anche la dimensione sociale e civile della poesia, il suo impegno a dire tutto, a farsi carico della parola anche per conto terzi. Allorché e laddove le voci di alcuni siano soffocate, condannate all’afasia. In proposito viene da ricordare la testimonianza di Anna Achmatova negli anni della Russia staliniana, quando, a prefazione del suo straziante Requiem, racconta dei diciassette mesi trascorsi a fare la coda fuori dalle carceri di Leningrado per poter vedere suo figlio detenuto politico. “Una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, si ridestò dal torpore e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma lei può descrivere questo? E io dissi: – Posso. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto”. Tuttavia il poeta – ancorché racconti i fatti – non ha compiti di storico né di cronista. E’ piuttosto un interprete. Non di meno un interlocutore che chiede ascolto, esige risposte, giudica, talvolta condanna. E lo fa in nome di ciò che potremmo definire un’etica dell’universalismo. Soprattutto nelle difficili contingenze, nei momenti in cui – per dirla con Bertolt Brecht – si vivono tempi cupi. Se non altro per lasciare memoria, “a coloro che verranno”, degli orrori ed errori già compiuti, così che “Voi che sarete emersi dai gorghi / dove fummo travolti / pensate / quando parlate delle nostre debolezze / anche ai tempi bui / cui voi siete scampati”. La voce dei poeti si alza, dunque, a criticare, correggere, re-iscrivere gli avvenimenti. Si misura con la storia e pondera la storia stessa. Per tali ragioni possono ascoltarsi parole accorate e consapevoli come quelle di Pier Paolo Pasolini: “… Ma io, con il cuore cosciente // di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare / se so che la nostra storia è finita?”. Ed è ancora la poesia a rivelare ciò che di noi – del segmento di tempo che ci è dato vivere – sia da sempre iscritto nel ‘sentimento del mondo’.