Capita di andare in una città per una ragione e tornare a casa soddisfatti per qualche piacevole sorpresa. E quel di più lo percepisci come dono generoso e non puoi fare a meno di promettere a te stesso che, sì, presto ci tornerai. Mi è capitato a Torino, città piena di fascino e storia e dal presente tutto da costruire, dopo che per lungo tempo è stata capitale metalmeccanica. Ci vado per il Salone del libro e qualche volta per Terra Madre, ospitati in quel Lingotto un tempo fabbrica di auto. Stavolta, invece, ci sono tornato per Bob Dylan nel palazzetto che fu dell’hockey su ghiaccio alle olimpiadi del 2006 e oggi riciclato in splendida arena da concerti.
Ma a farmi tornare a casa ancora più entusiasta della città non è stato lo straordinario concerto di “Sua Bobbità”, e nemmeno l’averlo incontrato in mezzo alla strada. Così come non mi hanno sorpreso, sebbene mi siano piaciuti, il rinnovato museo Egizio e la tappa fondamentale a quello del Risorgimento. A colpirmi è stata invece la caccia al tesoro che mi sono trovato a fare nelle strade del centro storico alla ricerca di antiche corti di storici palazzi. Per caso, infatti, mi sono imbattuto in un totem che invitava a visitare i “Passaggi nel contemporaneo a corti aperte”, secondo lo slogan della mostra di arte contemporanea itinerante all’interno di otto edifici di prestigio. L’iniziativa, aperta fino al 10 novembre, è organizzata in occasione di Expo 2015 e si chiama Arte alle Corti.
Nonostante il sole invitasse all’ombra e al riposo ho cercato una per una le corti e mi sono imbattuto in allestimenti straordinari e dalla grande forza espressiva, in un dialogo tra antico e contemporaneo che non sempre riesce bene ma che in questo caso era stato ben costruito. Nel cortile di palazzo Carignano, sede dell’antico parlamento subalpino ancora perfettamente conservato (hai visto mai che magari si ritorna all’antico Regno di Sardegna?) e del primo Parlamento del Regno d’Italia un vecchio peschereccio sta tirando su dalla rete un’auto, con tanto di assicurazione e bollo datate 2003, anno della morte del suo proprietario, il grande artista Mario Merz, fondatore dell’Arte povera, e forse più conosciuto all’estero che in Italia.
Proseguendo, quasi a caso, mi imbatto in un’altra corte. Questa volta è quella di palazzo Birago di Borgaro, sede della Camera di Commercio, dove un solerte usciere mi invita ad entrare per assistere alla conversazione privata che si sta svolgendo dentro la FiatX19, macchina sportiva degli anni ’70, tra Daniel e Magdalena, coppia di artisti svizzeri tridimensionali che parla in un italiano meccanico; ancora dentro la corte la versione 1:1 della casa prefabbricata che Buster Keaton realizzò nel suo film “One week”, ironia profetica di futuri e maldestri “fai da te”.
Di fronte a questa elegante corte resa surreale dall’arte, eccoci di fronte al giardino di palazzo della Cisterna. E sembra di entrare in una selva oscura o in una di quelle foreste selvagge mille volte descritte da Emilio Salgari. Si sa per certo, infatti, che il grande scrittore non amava viaggiare e mai si spostò da Torino e forse in questo angolo di paradiso il padre di Sandokan veniva a cercare ispirazione per i suoi assalti alle tigri o duelli tra corsari.
Qui è il grosso della mostra con opere dallo straordinario richiamo suggestivo e poetico, e con nomi che significano già la storia dell’arte contemporanea, come il giapponese Nagasawa cui è dedicata la corte principale del palazzo Cisterna con il suo miracolo di equilibrio e leggerezza composto da 7 travi di legno di 7 metri ciascuna che sorreggono un pesante e monolitico cubo di ferro, Aldo Mondino con la cappelliera “Gerusaleme”, Daniel Spoerri e una sua figura bronzea e onirica immersa nel bosco. A loro si affiancano gli “Uomini blu”, il branco di lupi della serba Jelena Vasijev, il monolite inquietante e suturato di Salvatore Astore.
La caccia al tesoro continua e le corti da scoprire sono ancora molte, e così arrivo davanti al Palazzo Reale per vedermi dall’alto i manichini di Luigi Mainolfi simili al coro di una tragedia greca, con tuniche bianche fasciate da cinture ora nere ora rosse gialle o bianche, che si ergono dentro la cavea del teatro romano. Mentre sotto le finestre del sindaco Piero Fassino, in palazzo civico, uno sciame di api bronzee sta costruendo il suo favo circolare da cui già esce miele.
Ancora una tappa sotto il sole e arrivo alle ultime due corti aperte. In palazzo Costa Carrù della Trinità, nel silenzio che solo la corte può regalare al viandante, si prova un improbabile dialogo con la luna e grazie ad un vecchio ripetitore parabolico si ascoltano messaggi, note di tromba, suoni, rumori e non si sente che l’eco degli stessi in un gioco di rimandi che lascia spaesati, mentre, accanto, due sculture di Fabio Viale in marmo bianchissimo richiamano, con un iperrealismo quasi pittorico, sacchetti di carta pronti ad essere gettati.
La cosa più futile e inutile dopo l’uso che diventa pietra, come a dire che forse nulla si crea ma, soprattutto, niente si distrugge. Nell’androne anche un ascensore anni ’60 che invita a farsi un viaggio immobile insieme ad un ingombrante omino che sovrasta dall’interno anche un giocatore di basket. Il visitatore mette quindi in azione l’opera e ne diventa parte, sebbene l’inquietudine della convivenza con la figura lo costringa a più di una riflessione.
Ultima tappa, infine, all’interno dell’NH Collection, albergo per stranieri e turisti eleganti che un tempo ospitò l’Albergo di virtù per giovani di buone speranze ma con poche risorse. Tra costoro anche un giovane Antonio Gramsci, che di speranze se ne intendeva. Qui è parcheggiata una rielaborazione in acciaio della Autoblinda Lancia che nel primo conflitto mondiale venne guidata da Tommaso Marinetti, autore poi di “Alcova d’acciaio”. L’interno dell’opera è una piccola cabina letto con tanto di lenzuola e pantofole NH.
La caccia al tesoro è così finita e anche il mio viaggio a Torino. Rimane la positiva sensazione di una città ospitale e viva e del suo impegnarsi nel cercare una nuova strada dopo che quella battuta dalla Fiat sembra definitivamente alle spalle. Forse varrebbe la pena riprendere esempi positivi come questi per sperimentare anche a Siena nuove forme di cultura che comprendano il dialogo tra linguaggi diversi.
Da anni, Siena sembra ferma nel fare della cultura la esclusiva promozione di se stessa, senza troppo mettersi in discussione con i linguaggi del contemporaneo. Ci provò a suo tempo il sindaco Pierluigi Piccini con la mostra di Tony Cragg (ricordate la celebre “Pera” finita, seminascosta, ai più agli Orti dei Tolomei) e si proseguì, non senza qualche titubanza, con lo spazio espositivo de Le Papesse. Poi quasi più nulla. Non sarà forse i caso di ricominciare a far tornare Siena una città nel flusso della contemporaneità?