Il 6 novembre ricorre il 70esimo anniversario della deportazione degli ebrei senesi in direzione dei campi di concentramento nazisti, una delle pagine più nere della storia della nostra città. Piero Valensin ha assistito in prima persona agli eventi di quell’autunno e, nonostante fosse molto giovane all’epoca, le immagini sono ancora molto nitide nella sua memoria.

«Io ero piccolo negli anni delle leggi razziali – racconta Valensin – la mia famiglia non frequentava in maniera assidua la comunità ebraica. Fino al ‘42 non ho risentito in maniera particolare di queste leggi, da quel momento però sono cominciate le preoccupazioni e allora mio padre, per evitare che potessi dire qualcosa di sbagliato, ci trasferì in campagna».
La situazione era più tranquilla lì?
«In campagna non ho avuto nessun problema, giocavo coi bambini delle fattorie vicine e non ho mai ricevuto alcuna offesa; però sentivo che stava succedendo qualcosa, gli adulti si riunivano e io spiavo queste sedute. Da lì ho appreso che ci stavano cercando per portarci in Germania. Ero molto impaurito».
Quand'è cominciata la fuga vera e propria?
«Siamo scappati da questa casa in campagna ai primi del ‘43, in fretta e furia, venne ad avvisarci la mattina la moglie di Achille Sclavo, per cui mio padre lavorava. La sera precedente a una festa aveva sentito dire che cominciavano i sequestri degli ebrei. Di quei momenti ho dei flash, ma uno particolarmente struggente: mio nonno era molto malato e non poteva venire con noi, mi ricordo che mi abbracciava piangendo; sento ancora i suoi baffi umidi sul mio viso».

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