Non si coltiva più il dubbio diceva Francesco Guccini, in un’intervista di qualche mese fa nella quale tracciava un bilancio della propria vita e descriveva il momento che stiamo vivendo.

Ecco, il dubbio. Parola dimenticata, perduta, in un mondo nel quale l’autoesaltazione e la sicurezza sfrenata ed ostentata la fanno da padroni. Parola che torna, però, prepotente se ci si volesse soffermare sulla piega che sta prendendo il nostro vivere, sulla china sulla quale sembra, inevitabilmente, essersi avviato il nostro mondo.

Dubbio che assale se solo ci affacciassimo alla finestra dei perché e ci sforzassimo di giudicare e giudicarci, di riflettere sugli anni che abbiamo vissuto e stiamo vivendo e, soprattutto, su quale potrà essere il futuro che ci attende.

Un dubbio, sopra ogni cosa, però, mi assale analizzando questi anni; è veramente questo il posto nel quale vogliamo vivere e che affannosamente ed ogni giorno ci sforziamo di alimentare. E’ tutto questo che vogliamo tramandare ai nostri figli. E soprattutto sono possibili e consentiti cambi di rotta, stravolgimenti di quello che sembra un destino segnato.

E’ incredibile constatare come ormai popoliamo un globo di uguali, senza più sfumature, senza più peculiarità e tratti distintivi; le città si assomigliano e si ricopiano lungo viali sfolgoranti dove le stesse catene e multinazionali sono posizionate allo stesso modo e nello stesso ordine e tutto deve diventare città in quanto non c’è più spazio per altro; le mode si assomigliano con gli stessi pantaloni e le stesse pieghe o le esilaranti acconciature sfoggiate a migliaia di chilometri da ragazzi ormai in fotocopia; i costumi si assomigliano, il cibo azzera le distanze offrendosi fuori posto e fuori stagione in ogni dove, i desideri si assomigliano così come i sogni e le aspettative. Tutto si assomiglia tanto che un’oscillazione in Cina produce conseguenze negli Stati Uniti nello stesso tempo ed allo stesso modo. Nulla si salva e si sottrae alla potenza uniformante ed omologatrice di questi ultimi decenni ed alla costante e maniacale condivisione di ogni gesto, momento, istante. Siamo interconnessi in un enorme vaso comunicante.

Si chiama globalizzazione o società globale e si è venduta come conquista del mondo, come possibilità di spiegare le vele e dominare gli spazi, di solcare i cieli con un aereo con la stessa facilità ed allo stesso prezzo con la quale si imbraccia una bicicletta per percorrere qualche isolato, come dominio dell’uomo sul mondo, come filosofia di vita, come pensiero dominante, come forza regolatrice delle nostre esistenze, come modello al quale tendere, come obiettivo da raggiungere, come serbatoio inesauribile di offerte che ha deformato gli uomini in fattori di consumo. Meno regole per più possibilità verso un mondo che avrebbe regalato opportunità e livellato le distanze avvicinando gli ultimi ai primi, rendendoci tutti uguali, più ricchi e felici.

A distanza di qualche decennio, di fronte alla situazione attuale, al contrario il dubbio di aver costruito un mostro terribile che ci ha fagocitati ed irreversibilmente trasformati diventa un tarlo che si insinua pressante in chi ha sufficiente spazio e cognizione per ospitarlo.

Ora la domanda che sorge spontanea è la seguente: ci sono margini per tornare indietro, per mettere in campo azioni che portino qualcuno a cambiare rotta ed a distinguersi, si può rialzare la testa oppure qualunque tentativo di farlo è tacciato, a qualunque latitudine ed indipendentemente dalle connotazioni culturali ed ideologiche, come becero populismo o arcaico sovranismo o peggio ancora come romantica resistenza fuori tempo e fuori schema oppure il fine ultimo, il disegno finale, era proprio quello al quale stiamo assistendo e si è tristemente compiuto. Pare proprio quest’ultima la risposta se osserviamo i tentativi e le tentate devianze di questi anni; chi ha tentato di opporsi, di mutare il percorso è stato stritolato, umiliato, riportato sulla “retta via”. E non dico che i tentativi messi in campo o tentati siano stati tutti da seguire e da imitare. Dico soltanto che ogni repressione violenta ha prodotto automaticamente reazioni in altri contesti, spesso peggiori ed ancor più radicali.

Gli ultimi decenni in Italia sono stati dominati dalla logica della gigantocrazia in tutti i settori, pubblici e privati; dalle grandi fusioni aziendali per reggere l’urto della concorrenza al ribasso fino alle aree vaste nella gestione dei servizi pubblici locali. Un fallimento dopo l’altro, un deterioramento dell’offerta ed un peggioramento delle condizioni per gli utenti e quindi per i cittadini. Un de profundis insomma. Eppure nessun ripensamento se non qualche parola sottotraccia di qualche illustre esponente mai fatta seguire da fatti concreti. Si doveva e si deve andare avanti senza sosta come folgorati da chissà quale rivelazione verso chissà quale porto o soluzione finale. Non si intravedono risultati tangibili ma comunque non si ha l’umiltà né la lungimiranza di invertire la rotta. Questo è il mondo ci dicono. Che ci piaccia o meno. Economie di scala ed austerità. Questo è il mantra. Oggi l’Italia è un paese immobile, imbarbarito, senza prospettive ed il risultato dei fallimenti di questi anni li viviamo e li dovremo vivere, sopportare e subire per tanto altro tempo ancora.

E se allarghiamo l’orizzonte osserviamo come in altre realtà le cose, poi, non siano andate molto diversamente.

Se la “superpotenza” Juncker ci viene a dire, senza un filo di vergogna, che con l’austerità siamo andati oltre e che con la Grecia si è tenuto un atteggiamento di esagerata intransigenza, automaticamente viene da pensare come dovranno sentirsi quei cittadini ellenici che in questi anni hanno perso tutto, si sono visti tagliare salari e pensioni, servizi essenziali, azzerare speranze, hanno assistito, cibandosi e dormendo, in alcuni casi, nei centri di assistenza, alla razzia del loro paese ed alla condanna a morte della culla della democrazia, del luogo natale dei più grandi pensatori dell’umanità. In fondo la Grecia, ed i suoi cittadini, chiedevano di non pagare gli errori commessi da pochi in danno dei più, della collettività, chiedevano solidarietà per rimettersi in cammino, chiedevano futuro, rivendicavano il ruolo e la grandezza di una terra millenaria e storica. Hanno ricevuto porte sbattute in faccia e prestiti che pagheranno per generazioni, l’egoismo ed il giudizio di paesi con i quali avevano e dovevano condividere il sogno europeo. La Grecia voleva rialzare la testa, come altri, in altre epoche, e non lontane, hanno potuto fare grazie alla solidarietà ed alla benevolenza dei vincitori sui vinti, e ciò non poteva essere permesso. Non si poteva correre il rischio di emulazioni.

Pensiamo alla Catalogna ed alle assurdità alle quali siamo stati costretti ad assistere; si possono condividere o meno le ragioni dell’indipendentismo ma non si possono tollerare le scene che ci hanno riportato con la mente a momenti bui del passato e che hanno macchiato di sangue, di inciviltà ed incapacità politica, quella che avrebbe dovuto essere una legittima discussione all’interno di una grande nazione ed in un contesto europeo del quale la Spagna fa parte. L’Europa ha taciuto lasciando che gli spagnoli lavassero i panni sporchi a casa loro, permettendo che si picchiassero cittadini che volevano esercitare un diritto inalienabile come quello del voto democratico, chiudendo gli occhi e turandosi le orecchie, facendo finta di niente e trascurando una questione che continuerà ad ardere e covare per lunghi anni ancora minando l’unità nazionale senza aver fornito risposte alle istanze catalane se non con arresti di alcuni esponenti politici e cariche sui manifestanti.

Come si può accettare un’istituzione, come quella europea, devono aver pensato in Catalogna ed in Spagna più in generale, che impone rigore, austerità, che indirizza le scelte economiche e sociali di una nazione e che non è in grado di garantire lo svolgimento, sereno e libero, di una discussione nodale all’interno di uno stato membro.

E poi non si può non fare a meno di un accenno sulla Brexit: se neppure la rigorosa e ricca Gran Bretagna riuscirà ad attuare il volere popolare, quel referendum attraverso il quale si era chiamato il popolo di sua Maestà ad esprimersi e che aveva indicato chiaramente la via, ecco che allora mutare rotta diviene, improvvisamente, scalare una montagna a mani nude.

Quanto c’è di vero nel freno imposto dagli unionisti per la questione doganale dell’Irlanda del Nord o nei mal di pancia di una parte dello stesso partito che ha invocato l’uscita dall’Europa o, al contrario, la verità è da ricercare in un accordo impossibile e senza possibilità di appello  in quanto il rischio di una Gran Bretagna che possa farcela da sola è troppo grande da correre per chi ha difeso e vuole continuare a difendere questo stato di cose.

Anche Brexit è un fallimento della politica britannica e di quella europea e soprattutto uno schiaffo ad un popolo, sia nei confronti di chi l’ha sostenuta, sia nei confronti di chi l’ha contrastata e potrebbe trovarsi costretto ad uscire senza certezze o a rimanere in posizione di assoluta subalternità.

L’effetto domino di tutto ciò ha tracimato in Italia con l’ascesa al governo di forze intrinsecamente incompatibili ma unite dal risentimento diffuso e strumentalmente enfatizzato nei confronti di un sistema che non può e non deve perdurare ed in Francia, dove il fiero difensore di questo modello d’Europa Macron è violentemente, e da settimane, contestato e ormai accerchiato da un’ondata popolare che rimanda a momenti di rottura e di radicalità del passato pur con connotazioni assolutamente figlie dei nostri giorni.

Il dubbio che si sia voluto coprire ogni Stato con lo stesso mantello indipendentemente dalla taglia e dai gusti estetici e soprattutto indipendentemente dai bisogni e dalle legittime aspettative è profondo e fondato e non potrà durare a lungo il colosseo dei social network nei quali si è rinchiuso la gente, individualizzato la società e svilito la partecipazione.

Siamo ad un bivio, profondo e strutturale. O il centro del mondo torneranno ad essere i popoli ed i loro bisogni oppure i tentativi di devianza e di rottura di questi anni saranno stati soltanto timidi assaggi di scenari apocalittici che si trovano proprio dietro l’angolo