Dante Alighieri festeggia i suoi 750 anni. Indubbiamente ben portati. Se consideriamo la ‘modernità’ dei temi che egli tratta, dei mezzi espressivi che piegano il linguaggio a situazioni e concetti i più diversi, creando audaci neologismi, utilizzando forme dialettali, latinismi, la lingua infima e il sublime.
Non c’è località italiana che al Sommo non abbia dedicato perlomeno una piazza o una strada. Nella variegata tipologia delle targhe stradali mi è capitato di vedere che c’è stato persino qualche amministratore locale (mi trovavo in una cittadina del Centro-Sud) che – forse con qualche eccesso didattico – ha fatto aggiungere al nome la qualifica: ‘poeta’. Troppo forte. Ma è pur sempre riconoscenza verso chi ci ha fornito una lingua (in verità piuttosto sottoutilizzata). Vanto di italianità al pari di quell’orgoglio che a una ragguardevole parte di italiani fa dire: qui passò o soggiornò il Divino Poeta…; proprio di noi si legge nella Commedia, in quei versi che… E vai con la citazione.
Dante a Siena Perciò, vista la ricorrenza e i già detti vanti che ciascuno reclama e declama, sarà inevitabile non ricordare anche Dante e la città di Siena. Si presume che egli fosse stato a Siena in diverse circostanze, ma di una visita in particolare ce ne dà notizia Giovanni Boccaccio nel suo “Trattatello in laude di Dante” – opera talvolta d’impronta leggendaria, ma anche ricca di notizie autentiche sulla biografia dell’Alighieri – dove il certaldese racconta che Dante «essendo una volta tra l’altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d’uno speziale» gli fu fatto vedere un libro di notevole interesse. Non essendoci spazio nella bottega per poterlo sfogliare comodamente, si sedette fuori su una panca «e, messosi il libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere». Il nasuto lettore si immerse talmente tra le pagine che apparve del tutto estraneo al baccano della «general festa de’ Sanesi» che si stava svolgendo per strada con assembramento di gente, schiamazzi, «balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani». Imperterrito, l’Alighieri tirò di lungo fino «ad ora nona, prima fu passato vespro» sorprendendo tutti per come avesse ignorato «quella gran bella festa» e soprattutto per come fosse riuscito a rimanere concentrato in mezzo a tanto frastuono.
Visite a parte, i senesi possono comunque vantare come il più cólto e pungente giudizio su di loro porti la firma dantesca. Il ghibellin fuggiasco, infatti, badò a cogliere la fatuità dei cittadini di Siena presi ad inseguire due ambizioni, entrambe legate all’acqua: annettere il porto di Talamone ai possedimenti della Repubblica e scoprire il corso sotterraneo della Diana. La staffilata giunge attraverso un escamotage letterario. A conclusione del XIII canto del Purgatorio, la nobildonna Sapia Salvani manifesta il desiderio di far giungere sue notizie ai familiari chiedendo al Poeta di farsene ambasciatore. E fornisce a suo modo l’indirizzo di casa: «Tu li vedrai tra quella gente vana / che opera in Talamone, e perderagli / più di speranza ch’ha trovar la Diana; / ma più vi perderanno gli ammiragli». Del resto già nell’Inferno si era detto che frivoli e sciocchi come i senesi non arrivavano ad esserlo nemmeno i francesi: «E io dissi al poeta: Or fu già mai / gente sì vana come la sanese? / Certo non la francesca sì d’assai!».
Provenzano e Sapia Quanto ai versi del Purgatorio «Liberamente nel Campo di Siena / ogni vergogna deposta, s’affisse» (li leggiamo in piazza del Campo sulla lapide posta alla bocca del Casato) sappiamo che la storia a cui si allude è quella di Provenzano Salvani (1220-1269), nobile comandante di parte ghibellina al tempo della Repubblica senese, nonché nipote di Sapia, gentildonna di Siena della opposta fazione guelfa.
Provenzano Salvani fu, in Siena e in tutta la Toscana, personaggio autorevole e ambizioso. Per le sue mire era disposto a fare patti anche con il Diavolo, che, secondo leggenda, interpellava regolarmente per conoscere i propri destini. Ebbe un ruolo militare di primo piano nella celebre battaglia di Montaperti, dove, come Satana gli aveva profetizzato la notte prima dello scontro, poté ergere la testa “al di sopra delle altre”. Non ugualmente accadde nove anni dopo, quando, all’apice del suo prestigio, combatté a Colle Val d’Elsa, nuovamente contro i fiorentini e le altre città guelfe della Toscana. Satanasso aveva vaticinato in eguale maniera: «Tu andrai, combatterai e la tua testa si ergerà al di sopra delle altre». Andò così, salvo che per un dettaglio. La testa di Provenzano, crudelmente staccata dal suo busto, fu vista elevarsi su tutte le schiere perché infilata su una picca dell’esercito fiorentino ed agitata come un trofeo. Venne ucciso da un fuoriuscito senese di parte guelfa, Cavolino Tolomei, mentre la zia Sapia (invidiosa fino ad allora dei successi del nipote) guardava compiaciuta l’orribile scena dalle alture di Castel Ghinibaldo.
Dante colloca Provenzano nella prima cornice del Purgatorio fra coloro che furono sopraffatti dalla vanità del potere. Apprezzabile, tuttavia, la sua coerenza, poiché anche quando il ghibellismo cadde in disgrazia, egli si mantenne fedele alla causa. Così come – considerato l’amor proprio del Salvani – fece clamore il suo gesto nei confronti del fedele amico Mino Pagliaresi. Questi, infatti, era stato catturato dall’esercito di Carlo I d’Angiò nel corso della battaglia di Tagliacozzo, e quando giunse a Siena la notizia che il prigioniero era destinato alla decapitazione se non fossero stati versati 10000 fiorini per il riscatto, Provenzano, accantonando ogni forma di superbia, non esitò a chiedere, in piazza del Campo, l’elemosina ai senesi. Per tale azione, Dante lo rappresenta come un penitente che, riscattandosi con l’umiliazione cui si era sottoposto, aveva ottenuto da Dio di abbreviare la sua permanenza nell’Antipurgatorio. Ed ecco spiegati i versi del Poeta: «Quegli è, rispuose, Provenzan Salvani; / ed è qui perché fu presuntuoso / a recar Siena tutta a le sue mani”. […] “Quando vivea più glorioso, disse, / liberamente nel Campo di Siena, / ogni vergogna deposta, s’affisse; / e lì, per trar l’amico suo di pena / che sostenea ne la prigion di Carlo, / si condusse a tremar per ogni vena».
Pure di Sapia Salvani non mancano i poetici ragguagli danteschi. La perfida zietta che, a detta di qualche storico, fu anche donna caritatevole e dedita alle opere pie, almeno secondo Dante finirà in Purgatorio per il rotto della cuffia e grazie al pentimento cui la portò il beato Pier Pettinaio: «Pace volli con Dio in su lo stremo / de la mia vita; ed ancor non sarebbe / lo mio dover per penitenza scemo, / se ciò non fosse ch’a memoria m’ebbe / Pier Pettinaio in sue sante orazioni, / a cui di me per caritate increbbe».
Tra storia e leggenda Sempre di Siena parla il Poeta quando mette all’Inferno i figli di papà riuniti nella Brigata Spendereccia deprecandoli con ironia. Ecco così rammentato il “morigerato” Stricca e suo fratello Niccolò (era quest’ultimo che si divertiva ad alimentare il fuoco con gran quantità di costosissimi chiodi di garofano). Caccia d’Asciano, che nelle dissolute imprese della brigata perde vigna e poderi. C’è poi l’Abbagliato, efficace soprannome di Bartolomeo dei Folcacchieri, persona di “oculato senno”. Mentre un altro personaggio della congrega, Lano da Siena, si era già guadagnato l’inferno dantesco in un diverso canto, poiché incontenibile scialacquatore. Il suddetto Lano ricoprì importanti cariche pubbliche e partecipò a numerose spedizioni militari. Il 26 giugno 1288 cadde nell’imboscata tesa dagli aretini ai senesi presso Pieve al Toppo, in val di Chiana. Al tempo ci fu chi disse che quella morte era stata meno eroica di quanto potesse apparire. Lano, ridotto ormai in miseria, decise in quel modo di porre fine ai suoi giorni. Fu l’ultimo sperpero che si poté permettere.
Almeno secondo alcuni dantisti, non sarebbe invece da ascrivere al repertorio dei luoghi senesi la Fonte Branda che troviamo ancora nell’Inferno: «Ma s’io vedessi qui l’anima trista / di Guido o d’Alessandro o di lor frate, / per Fonte Branda non darei la vista». Si tratta più probabilmente della Fonte Branda vicino a Romena, nel Casentino. Si sta infatti parlando del falsario Mastro Adamo, che visse giustappunto presso Romena dove i Conti Guidi (Guido, Alessandro e Aghinolfo) lo spinsero a falsificare la moneta fiorentina, togliendo tre dei ventiquattro carati d’oro da ciascuna moneta e sostituendoli con metalli vili.
Infine Pia de’ Tolomei. Leggenda medievale dai drammatici accenti, tutta costruita sui pochi (anche se intensi) versi con cui Dante chiude il canto quinto del Purgatorio: «Ricorditi di me che son la Pia. / Siena mi fe’, disfecemi Maremma: / salsi colui ch’inanellata pria, / disposando, m’avea con la sua gemma». Sono bastati questi quattro endecasillabi ad alimentare una leggenda che soprattutto in epoca romantica generò, a sua volta, poemi e drammaturgia (soprattutto popolari).
A Siena è forse la figura dantesca maggiormente benvoluta. Il suo fantasma balena in una scala a chiocciola di Palazzo Brigidi (dove ha sede parte della Pinacoteca), talvolta dietro le bifore di Palazzo Tolomei. Colei alla quale venne negato amore, è giustamente risarcita con il sentimento che crudelmente le fu maltolto.