Jugoslavia, Somalia, Medio Oriente, Afghanistan. Toni Capuozzo da inviato Mediaset prima, del settimanale del Tg5 “Terra!” poi ha raccontato la guerra a milioni di telespettatori, catturando le storie, le voci, i ricordi di migliaia di persone dalla vita interrotta e, spesso, distrutta in nome di ideali politici, religiosi ed economici.
Un inviato di guerra che dopo anni di carriera ha ancora la voglia e la capacità di emozionarsi, di condividere le storie delle persone che ha incontrato sulla sua strada, in nome di quel giornalismo “non ideologico ma appassionato, forse poco obiettivo perché scegliere di inquadrare un volto insanguinato piuttosto che una piazza è già una scelta, un’influenzare il giudizio di chi a casa guarda il tuo servizio”.
A portare Capuozzo a Siena dove sienalibri.it lo ha incontrato sono stati gli impegni lavorativi, un servizio sulla mostra di Milo Manara “Le stanze del desiderio” allestita al Santa Maria della Scala. Una puntata speciale di “Terra!” che andrà in onda nelle prossime settimane su Canale 5 con immagini della mostra antologica e un’intervista al maestro dell’eros. Una puntata culturale realizzata da un esperto di guerra che nella vita è da sempre molto affascinato da tutto ciò che è sinonimo di cultura, intesa sia come sublime mezzo per affermare sé stessi (come pensava nella sua gioventù da sessantottino), sia come sinonimo di “reality show” della tv di oggi.
Come si spiega che nell’era della tv digitale e dell’offerta di canali che si è moltiplicata non ne esista nemmeno uno interamente dedicato ai libri?
«In passato la tv ha sperimentato trasmissioni dedicate ai libri che hanno avuto anche un discreto successo. Molto dipende dalla bravura di chi conduce. Spesso ho comprato libri perché affascinato da chi li presentava. Se uno è noioso a presentare un libro molto bello, è difficile che il volume possa interessare il grande pubblico. Maurizio Costanzo, per esempio, è sempre stato un formidabile promotore di libri che con il suo modo di fare sornione e indagatore, incuriosisce i telespettatori invogliandoli a leggere volumi obiettivamente molto belli ma anche altri piuttosto anonimi. Spesso chi si occupa di cultura conserva tracce di comportamento elitario che può andar bene in un ambiente accademico ma di sicuro non in tv».
Nel 2009 hai allestito uno spettacolo per beneficienza per raccogliere fondi da destinare alle persone meno fortunate di Herat e sei stato anche direttore artistico del Festival di Reportage di Atri. Da uomo di cultura come pensi che si possa definire quella che si vede oggi in tv?
«È molto comune l’idea che la cultura debba essere per forza elitaria anche se è più diffusa rispetto ai secoli scorsi. Tende a parlare un linguaggio che è per pochi adepti, che è un ammiccamento a chi ha fatto i tuoi stessi studi, ha il tuo stesso modo di intendere le parole. Si pensa che la cultura debba essere per forza una cosa estremamente seria e boriosa. Io credo che con il passare del tempo sia diventata in molti aspetti un elemento ampiamente diffuso e inevitabilmente, “volgare”, nel senso di vulgus, legata al popolo, nell’accezione più neutra di questo termine. A suo modo oggi anche il Grande fratello è cultura. Personalmente non penso sia un tipo di cultura che promuove, educa e nobilita, ma credo che i giovani che lo guardano in qualche modo l’abbiano sostituito malamente con quello che in tempi passati era stare insieme intorno ad una chitarra, o leggere un romanzo di formazione. E’ un modo di rispondere a delle domande che tutti gli uomini si pongono “chi sono?, Cosa faccio? Come mi relaziono con gli altri?».
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