L’ora è tarda. Il barista ha ammainato a mezz’asta la saracinesca e con essa un altro giorno di ovvietà, là dentro consumatesi ad esorcizzare le brutte evenienze di quando la vita smette, sì, di essere banale ma per lanciarti qualche tegola in testa. Alla definitiva archiviazione della giornata resiste sul bancone un quotidiano sportivo, intristito da maneggi e frittelle. E così ridotto se ne sta con i suoi titoli sgualciti, ma non del tutto domi, ad annunciare cose quasi fossero guerre, intrighi, diplomazie, arrivi e partenze di eroi trascinanti con sé allori e polvere. Perché tale è il linguaggio con cui si racconta lo sport. Un divertente intreccio di tecnicismi ed epicità. Ecco allora che si “lotta fino all’ultimo respiro”, il campo avversario viene “espugnato”, la squadra riduce l’antagonista “ai propri piedi”, è “aggressiva” e se non lo è “manca di cattiveria”. L’etnia del giocatore vale un rito battesimale, dunque lui è chiamato “il serbo”, “l’argentino”, al pari de “l’ispanico” che non a caso era il nomignolo dell’aitante gladiatore nell’omonimo film di Ridley Scott. In tale festival dell’iperbole eccellono indubbiamente le cronache calcistiche, subito seguite da quelle della pallacanestro che, forse proprio perché giocata dentro un’asfittica arena, evoca quanto mai corpi a corpi madidi di sudore.
Nonostante l’evolversi dei linguaggi, l’aspetto agonale dello sport continua insomma a suggestionarne le cronache. Diviene attestazione letteraria di quanto le gesta sportive mantengano quasi intatta, dall’antica Grecia ai giorni nostri, la stessa allusività a ciò che nella vita è, appunto, competizione. Nell’Iliade Glauco è esortato dal padre ad “essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri”; e quando necessario, affermava Pindaro nelle sue Istmiche, niente scrupoli “ad annientare il nemico con ogni mezzo”.
Capostipite dei contemporanei autori di epinici giornalistici è stato indubbiamente il colto e disincantato Gianni Brera. Memorabile la sua pagina in cui per raccontare il secondo posto del mezzofondista Mario Lanzi alle Olimpiadi di Berlino, scriverà di come “Lanzi morse le nuvole correndo senza cervello”. Metafora degna del miglior Pindaro che fissò l’immagine di un lottatore sconfitto mentre “con l’invidia nello sguardo atterra nel buio una vuota illusione”. Ma se i canti epinici della grecità consegnavano gli atleti all’immortalità, più caduca è la gloria affidata alle attuali odi. Ne è convinto anche il barista che ha già buttato il giornale, spento tutte le luci.