Io non so per che cosa, noi Contradaioli, ricorderemo il drappellone di Elisabetta Rogai. Per la Madonna con la corona di spighe di grano, che bacia Siena, o per il cittino che gioca con i barberi delle Contrade, o per quei potenti cavalli orgogliosamente lanciati per sempre al galoppo. Felici di correre nella nostra storia. Oppure ancora, per i colori estratti dal vino, che rammentano la ricchezza delle nostre campagne e la fatica di tanti dei nostri nonni. Il loro lavoro silenzioso e umile, per trovare il loro presente e il nostro futuro nella terra resa fertile grazie al loro sudore.
Terra che avvolge l’immagine della Madonna, campagna che partendo dalle Crete avite, raggiunge la città e si distende nelle valli verdi custodite dentro le mura. Campagna che sa essere anche memoria: bastano tre cipressi, richiamo di Montaperti, a ricordarci il nostro sogno di libertà, immerso nella luce solare di un Cencio gioioso e trasparente in tutte le sue raffinate sfumature.
Ognuno coglierà il suo personale messaggio, tra i tanti che emergono nitidi dal cencio di Elisabetta. E proverà un brivido, perché credo che questo cencio parli al nostro cuore. Questo è un drappellone che racconta la trama appassionata di una città che nella sua storia ha dialogato da pari a pari con il mondo, tramandando nello stesso tempo, per secoli, l’intimità delle proprie tradizioni. Fino ai giorni nostri. Un miracolo, quasi una trasgressione, mal sopportata al di fuori di noi, e a volte non immune da superficialità, tra di noi.
Questo drappellone ci aiuta a ricordare grandezze antiche e sogni condivisi, con l’amore dichiarato per Siena, di chi l’ha creato, pensando a Siena con ammirato rispetto. Poi disegnato con la fusaggine di vite e non con il carboncino, dipinto e quindi accudito, come una madre consapevole che sa che prima o poi – oggi – il suo cencio, diverrà il nostro cencio.
Elisabetta, fiorentina, per mesi ha inseguito le sue emozioni verso Siena. Ha scavato nel profondo, ha cercato quelle congiunzioni dell’anima che sole, sanno liberare davvero la creatività. Ha ripescato con amore sensazioni provate nella nostra città, ma deve anche aver guardato negli
occhi il suo nipotino, di nascita senese, che disegna cavalli con mano sicura.
L’amore dunque, prima di tutto, rappresentato da subito in quel bacio a Siena di una Madonna Assunta, che abbraccia la città con il suo manto, per proteggerla, per rassicurarla di una contemporaneità difficile . Un bacio a occhi chiusi, perché gli occhi aperti non si addicono al sentimento. È una città, quella che la Vergine bacia, racchiusa nella meraviglia della Piazza del Campo, con i palazzi che sembrano continenti e terre di un mondo che per una notte e’ tutto qui, dove ogni vergogna deposta s’affisse, dove ogni sogno è possibile, dove la notte luminosa è quella stessa del cielo della Sala del Pellegrinaio.
La luna pare il centro di tutto il mondo e brilla, come le stelle, della stessa pittura d’oro che fu dei nostri grandi pittori. A cui Elisabetta rende omaggio con la stessa tecnica, a foglia d’oro, che lei ha voluto applicare con pazienza, per mesi, con maestria artigiana, con dedizione appassionata e antica.
Così come invece è intrisa di innovazione, di procedure brevettate figlie della scienza, la pittura con tinte ridotte da quattro famiglie dei nostri grandi vini, che Elisabetta ha voluto utilizzare come per pervadere geneticamente il Cencio, del DNA della madre terra.
È dunque, con le lettere tratteggiate una per una, a foglia d’oro, che Elisabetta Rogai fissa nel suo – ora nostro – Cencio, il messaggio universale, di una terra, quella di Siena, che al mondo dice, oggi come settecento anni fa: amate la giustizia, voi che governate la terra.
Lo stesso appello, dal Libro della Sapienza di Salomone, tradotto dal latino di allora nelle parole di oggi perché tutti possano comprenderle, che settecento anni fa Simone Martini volle imprimere nel cartiglio in mano al Bambino nella sua Maestà. E che una ventina di anni dopo Ambrogio Lorenzetti riprese, ancora, nell’allegoria della giustizia del Buon Governo. Perché i nostri grandi pittori del Trecento furono non solo maestri d’arte ma sollecitatori di equità, critici attenti nell’esortare il buon governo verso un mondo più giusto. Elisabetta Rogai ripete quel messaggio. E quanto ce ne sia ancora bisogno, è chiaro a tutti, visto che neppure il diritto al cibo, e quindi alla vita, appare garantito a tutti.
Dunque la corona di spighe di grano della Madonna Assunta, rilucenti e dorate, è anch’essa simbolo e messaggio. Di speranza perché la Terra Madre ci dia ancora il pane della vita, e il pianeta sia nutrito, senza più continenti immolati sui privilegi di pochi. E monito anche, perché questo dono si riesca a preservarlo e sia energia per la vita, in modo eguale per tutti.
Diverso da tutti è invece il nostro sogno di senesi. Che Elisabetta affida al gioco di un cittino. Potrei essere io tanti anni fa, appena comprati i barberi, la campanina e i brigidini, a Santa Lucia.
Oppure qualcuno di voi, Priori e Capitani, che così, in questo modo, giocando con i barberi delle Contrade, avete iniziato a perseguire il vostro sogno di vittoria e che adesso vivrete quattro giorni con il cuore della vostra gente tra le mani.
Seduto sulle lastre e contemporaneamente sul lembo del velo della Madonna del bacio, il cittino che è tutti noi, che rappresenta la passione contradaiola nel suo momento più puro, da bambini, lancia il suo Palio, dà la sua mossa. E i barberi delle dieci Contrade al canape, che Elisabetta ha voluto nei colori limpidi della nostra tradizione dell’infanzia, nel sogno del cittino, per forza e per amore, si
trasformano in cavalli al galoppo, sicuri, orgogliosi.
Fieri di correre qui, perché in nessuna altra parte del mondo l’ostinato sogno di una città e del suo popolo è affidato, con tanta verità, ad un cavallo. Con amore antico, sempre nuovo, che abbatte
le barriere del tempo. E con la speranza secolare di una città – la nostra – che, nonostante tutto e nonostante le sue debolezze, mai si arrenderà all’omologazione di giorni senza passione e senza storia.