«La mia maggiore preoccupazione è stata in primis per i miei figli, oltre che per la mia ex moglie, gli amici e i colleghi con cui ero venuto in contatto nei giorni precedenti alla conferma di contagio». Racconta così Giovanni Sbrana, vicedirettore del 118 di Arezzo e medico del Dipartimento Emergenza Urgenza i suoi giorni terribili trascorsi insieme al Coronavirus, che lo ha dapprima scosso nel fisico e nella mente e necessariamente isolato dagli affetti, ma, rappresentando una rottura della quotidianità, lo ha spinto anche a ripensare molti aspetti della vita privata e lavorativa.
La malattia Verso le metà dello scorso marzo, dopo un giorno di autoisolamento, gli è stato fatto il tampone, risultato poi positivo, come già lo stesso medico aveva intuito. Come la maggior parte dei casi positivi nella Sud Est, anche Sbrana ha potuto restare a casa in sorveglianza domiciliare in quanto paucisintomatico, ovvero con sintomi lievi, tali da non necessitare assistenza continua e quindi il ricovero. Il malessere è iniziato con un leggero aumento della temperatura corporea, senza mai superare i 38°, dolori articolari e debolezza. E’ stata quindi attivata la procedura assistenziale a domicilio per cui un medico dell’Igiene pubblica lo ha chiamato puntualmente ogni 48 ore per accertarsi delle condizioni di salute, come anche gli operatori dell’USCA e il medico competente. «Essendo medico mi sono sentito più fortunato di altri contagiati, perchè sapevo cosa fare e come farmi aiutare in caso di bisogno – prosegue Sbrana – Inoltre ho trovato forte sostegno psicologico nel lavoro che sono in parte riuscito a svolgere da casa, soprattutto grazie ai colleghi medici e infermieri, rimasti a lavorare in maniera indefessa, che hanno saputo coinvolgermi nelle problematiche come fossi lì presente. Anche in quelle circostanze abbiamo continuato a essere una squadra, non mi sono mai sentito solo, né di peso».
Sintomi spariti ma tampone positivo Dopo un settimana circa, i sintomi erano spariti, ma il tampone di controllo era ancora positivo. Ormai sappiamo che il coronavirus impiega molti giorni a morire. Ma per Sbrana le speranza di guarigione diventa certezza al secondo tampone di controllo, dopo circa 7 giorni diventato negativo. «La mattina dell’11 aprile – racconta -, le colleghe dell’Igiene di Siena mi hanno annunciano la bella notizia e che di lì a poco avrei ricevuto la notifica di guarigione. Una gioia immensa. Mi sono istintivamente affacciato al terrazzo e ho festeggiato, pur da lontano, con i vicini».
«Nessuno era pronto a una tale pandemia» «Ho riflettuto parecchio sul coronavirus e sulla presenza del virus dopo la guarigione clinica (scomparsa dei sintomi ma tampone positivo) – spiega Sbrana -. Il sistema di sorveglianza scrupolosa, con tamponi ripetuti per certificare la guarigione, è veramente fondamentale, le modalità di isolamento idem. Io non ho più avuto i sintomi dopo la prima settimana, ma se non avessi fatto i tamponi e non fossi rimasto isolato, avrei potuto contagiare i pazienti e i colleghi con cui sarei entrato in contatto. Nessuno di noi era pronto a una tale pandemia – conclude il medico – Faccio il medico da 21 anni e prima il volontario per altri 11, ho visto terremoti, incendi, alluvioni, anche scenari di guerra, ma nulla è stato mai così. Avevo visto altri agenti infettivi diffondersi e dare insufficienze respiratorie gravi, tra cui la SARS e l’H1N1. Quando si cominciò a parlare del SARS CoV2, credevo che sarebbe stata la solita notizia da addetti ai lavori che i cittadini avrebbero visto passare quasi in silenzio. Invece oggi, ci ritroviamo con un nuovo bisogno di salute, per fortuna finora soddisfatto dall’organizzazione di un Servizio Sanitario orgogliosamente pubblico ed efficiente, come quello Toscano. Ma soprattutto ci troviamo con una popolazione che è stata isolata a lungo, che si sta rapportando con il SSN in modo diverso e che non sappiamo come reagirà nel prossimo futuro. Dobbiamo ripartire e farlo con intelligenza, coscienza e attenzione. Ora l’attività ordinaria dovrà essere attenta alle nuove esigenze di protezione e distanza. Anche nel mondo dell’Emergenza Urgenza dovremo consolidare un modo di lavorare nuovo, con più attenzioni e capacità di unire l’esigenza della tempo dipendenza con quella della protezione nostra e dei pazienti. So che raccoglieremo al meglio la sfida come abbiamo sempre fatto, per l’orgoglio e la voglia di fare al meglio il lavoro che tanto ci piace. Un pensiero va ai colleghi, agli amici e ai cittadini che stanno o sono stati peggio di me e che, in qualche caso, ancora lottano per la guarigione».