Si fa un gran parlare di lentezza, perché improvvisamente ci siamo accorti che per arrivare puntuali agli appuntamenti con se stessi e con la vita è del tutto sconsigliabile correre. Ne va di mezzo la nostra incolumità, uno sconveniente afrore di sudaticcio, la dignità di chi non vuole mostrarsi schiavo del tempo ma artefice del “suo” tempo. E c’è molto di più. Siamo infatti giunti alla conclusione che la lentezza costituisca un atteggiamento etico da opporre alla rapidità che, invece, “consuma” il mondo, ne accelera la fine. Qualsiasi frenesia menoma la percezione delle cose, sottrae risorse, atrofizza sensibilità e sentimenti, rende illeggibile la realtà.
Furono, questi, temi particolarmente sentiti da un inquieto poeta, Paul Valéry, il quale spinse la sua polemica fino al punto di ritenere che progresso (ovvero velocità del cambiamento) e morte (caducità del mondo) fossero inestricabilmente connessi. Un poeta “terrorista”, si dirà, che per opporsi alla velocità, giunge – ironia dei ragionamenti e delle parole – a conclusioni forse troppo… frettolose.
E’ pur vero che i poeti – per dirla ancora con Valéry – vivono “dans un ordre insensé”, persi come sono su strade improbabili, in itinerari insinuati continuamente dal dubbio del bivio; costretti, dunque, a procedere per metafore e similitudini. La poesia, anche quando urga nel nostro intimo, non può essere impaziente, in quanto connaturale alla lentezza e di questa la gustosa primizia. Chi coltiva la lentezza come dimensione della mente e dell’esistere, è naturalmente poeta. Sa che la poesia vive prima indefinita, dispersa, circospetta dentro i giorni, finché non prenda la forma che giusto le orme dei nostri (e altrui) passi le danno. C’è comunque un movimento che la genera, anzi un viaggio. E non è un caso che sia spesso la poesia a ricongiungerci con una lontananza. Essa ha del viaggio proprio la stessa connotazione, che è poi quella della nostalgia rispetto a ciò che si lascia e verso quanto di inconosciuto desideriamo raggiungere. La distanza tra queste due nostalgie è colmata, appunto, da un lento cammino “poetico”.
Al tempo in cui ogni piccolo villaggio poteva vantare almeno uno scemo, il malcapitato era definito necessariamente “lento” e “un po’ poeta”. Oggi che il villaggio è vasto e lui stesso interamente scimunito per la rapidità con cui è cresciuto, si insigniscono di cittadinanza onoraria i lenti e i poeti. Dai manifesti apprendiamo che la cerimonia è fissata un’ora prima della fine del mondo. Non c’è dunque bisogno di correre, ma di pensare.