In un’intervista a Raitre, Giovanni Falcone ebbe a dire che “la mafia non è invincibile. E’ un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e quindi una fine”. Aggiunse che si tratta di un fenomeno molto serio al quale si risponde impegnando le istituzioni. A proposito del coraggio in questo impegno, il suo amico e collega Paolo Borsellino si spinse ad affermare che “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Purtroppo la seconda ipotesi accomunò entrambe in un tragico destino. La mafia è dunque un fatto umano. Aberrante e complesso, fitto di intrecci e collusioni. Il suo racconto ha contribuito, talvolta, a farne un mito sbagliato che trova radici nella visione romantica, aureolata del mafioso. Dal punto di vista letterario tutto cominciò nel 1863 con la commedia I mafiosi de le Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca. Eccovi tracciato il paradigma letterario della mafia: anti-borbonica, disposta a venire a patti con la classe dirigente; associazione criminale ‘a fin di bene’, perché essa è contro il potere e dalla parte del popolo. Ammicca a questa idea persino Luigi Pirandello con La lega, novella il cui protagonista impone una tassa ai proprietari terrieri per integrare la misera paga dei contadini. Una associazione segreta, nata a difesa dei deboli e della giustizia appare inoltre nel romanzo d’appendice I Beati Paoli, pubblicato a puntate tra il 1909 e il 1910 sul “Giornale di Sicilia” e dovuto alla penna di William Galte (pseudonimo di Luigi Natoli). Mafiosi, insomma, a guisa di provvidenziali Robin Hood. Si produsse in tale filone anche Giovanni Alfredo Cesareo, autore nel 1921 della commedia La mafia, che con efficacia drammaturgica e introspezione psicologica rappresentò, appunto, tutti gli stereotipi di una mafia erogatrice di giustizia. Nella vicenda di Cesareo trionfa la violenza ‘giusta’ di un avvocato mafioso sulle ‘ingiuste’ tesi di un aristocratico che sosteneva la legalità dello Stato. Ed è ancora da ascrivere a questo genere il romanzo Sette e mezzo di Giuseppe Maggiore, edito nel 1952 (il titolo allude ai sette giorni e mezzo (16-22 settembre 1866) che videro Palermo teatro di sollevazioni popolari. In epoca più recente è noto l’impegno anti-mafia di Leonardo Sciascia, che al tema dedicò diversi romanzi. Eppure in certe sue pagine (si prenda Il giorno della civetta
) anche lo scrittore siciliano ha qualche cedimento di ‘ammirazione’ verso il personaggio mafioso, come quando fa dire al capitano Bellodi che il padrino don Mariano Arena è nonostante tutto ‘un uomo’, quindi al primo posto di quella graduatoria che vede in testa “gli uomini, poi i mezzuomini, gli ominicchi, i piglianculo e i quaquaracquà”. D’altra parte – avvertì in proposito Andrea Camilleri – il romanziere fantastica, travisa, si invaghisce dei propri personaggi. Meglio che a raccontare la mafia (le sue trasformazioni, le sue atrocità) siano gli storici e i sociologi. Affinché si sappia che i mafiosi sono dei criminali senza attenuanti. Oggi, peraltro, sanno leggere e scrivere. E delle parole hanno paura.