Nei momenti incerti della storia quali sono quelli attuali – incerti non solo nel benessere economico, ma anche nel progettare un senso di futuro che non sia soltanto scomposta fuga dal presente – si avverte quanto mai il bisogno e il coraggio delle “parole importanti”. Non del chiacchiericcio, dunque, ma di quelle parole (frutto di pensieri pensati) che interpellino e pongano in discussione la realtà del mondo, le sue logiche perverse, i conformismi pilotati, il prevaricare di pochi (altrimenti detto “il potere”) a spese dei molti.
Un tempo chi aveva il dono di tale verbo era detto profeta, poiché tale è colui che riesce non tanto a “indovinare” il futuro, quanto a saper leggere e dire il presente spalancandolo, appunto, nella prospettiva del domani.
Una recente occasione per riflettere su questi temi ce l’ha offerta anche Oliviero Beha con lo spettacolo argutamente (e amaramente) intitolato “Volevo essere Pasolini”. Infatti Pasolini – lo ha scritto recentemente Maria Pace Ottieri su Velvet – seppe a suo modo dare un peso alle parole e alla responsabilità dei comportamenti individuali. Con le sue parole “corsare” egli profetizzò (è proprio il caso di dirlo) ciò che sarebbe accaduto a fronte di una mutazione antropologica provocata dalla società dei consumi, che, dietro un millantato bien-vivre, va, invece, ad essere “il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto”.
In Pasolini, allora, la parola (finanche quella poetica) divenne “eresia”, strumento d’arte duro e spigoloso (si pensi alla lingua pasoliniana) per interpretare e denunciare i paradossi, il dolore, la contingenza del tempo. Violenta e insieme struggente, cercò di dire una verità al suo stato primordiale, grezzamente puro, pre-ideologico. E forse può ritenersi consequenziale a tutto questo se, a un certo punto, il regista del Vangelo secondo Matteo sentì di dover consegnare la sua urgenza di dire a quella che non a caso viene definita la Parola, in quanto verbo (annuncio) talmente essenziale da poter “contestare” tutte le parole.
Pasolini torna quindi di attualità nel nostro oggi contraddistinto (per dirla con Oliviero Beha) dal cinismo e da una totale “regressione culturale”. Da qui l’esigenza di recuperare, contro la balbuzie e l’appiattimento dilagante, una parola che, magari a prezzo di una pasoliniana “disperata vitalità”, riprenda a pronunciarsi sulle cose che veramente contano.