Se tutto ormai è merce e tutto è commercializzabile, se il marketing è il nuovo catechismo laico imposto dalla religione liberista, ed il “brand” è l’icona sacra alla quale rivolgere le nostre preghiere, come stupirsi che anche i Comuni siano considerati alla stregua di marchi da pubblicizzare nel mercato del turismo e dell’enogastronomia? Quante volte abbiamo sentito pronunciare slogan del tipo “bisogna saper vendere il nostro territorio”, con amministratori locali che si inventano promoter del loro “prodotto” comunale?

Un prodotto “dematerializzato”, laddove, soprattutto in periferia nelle zone rurali e montante, si svuota sempre più di servizi essenziali al cittadino, si svuota della sostanza di ciò che può migliorare la vita delle persone sotto la scure dei tagli finanziari imposti dallo Stato, e si riempie di contenuti immateriali, emozionali, meramente comunicazionali, del tutto funzionali alla commercializzazione.

Ne deriva che se il Comune è un marchio, se il Gonfalone si trasforma in una griffe, coerentemente con i fenomeni di mercato che vedono sempre più le aziende accorparsi tra loro per competere nel mercato globale, ci si convince che anche i Comuni devono fare altrettanto accodandosi al trend.

Ma sì! In fondo bisogna farla finita con questi localismi: nel mercato del villaggio globale, bisogna evolvere e dalle autonomie locali passare alle “autonomie globali”. Chissà che prima o poi qualcuno non proponga di trasferire le sedi all’estero: Comuni off-shore con sede alle Cayman. Fatto sta che leggiamo ogni giorno di Comuni che, a detta dei fautori delle fusioni, dovrebbero fondersi tra loro in nome di ragioni commerciali, magari perché uno è forte col vino e l’altro col cacio, e vuoi mettere un bel bicchiere di rosso con un buon pecorino?

Sempre che, nel frattempo, non se ne faccia avanti qualcuno che la sa lunga sulle pere, perché allora la fusione a tre diventa un operazione culinaria imprescindibile! Oppure nei comuni montani, dove è meglio puntare sulla fusione tra i Comuni del vino novello e quelli delle castagne. Signori, sono servite le fusioni alla MasterChef.

Poi, ci sono i Comuni che dovrebbero fondersi perché… sorgono nella stessa valle, cosi semplifichiamo la vita al turista: metti poi che con tutti questi Municipi il viandante finisca per smarrirsi perché magari gli impazzisce google maps. D’altronde il territorio è come un ipermercato, e non è che puoi obbligare il cliente ad entrare contemporaneamente alla Coop e alla Esselunga.

Per non parlare poi del richiamo ai fasti dell’antichità: se ci sono due Comuni il cui territorio è stato dominato dagli Etruschi un paio di millenni fa, perché non fonderli ripristinando l’unitarietà dell’antico dominio? Ovviamente sempre guardando avanti in nome dell’innovazione. Se poi i Comuni sono di origine romana le fusioni potrebbero spingersi fino al Medio Oriente.

Perché, si sa, l’economia è retta anche dalle leggi della geopolitica ed i fusionisti non possono che tenerne conto. C’è anche chi va alla ricerca per il proprio Comune di una sorta di “accesso al mare”, anzi all’Autostrada del Mare, sollecitando la fusione con il Comune limitrofo in quanto dotato di casello autostradale, come se fosse in previsione la chiusura delle frontiere intercomunali con contestuale inibizione dell’accesso agli “stranieri”.

Per non parlare della stazione ferroviaria: in vista di una possibile dichiarazione d’indipendenza dallo Stato Italiano del Comune confinante dotato dello scalo, meglio mettere le mani avanti e fondersi, per garantirsi anche in futuro l’uso della ferrovia senza bisogno del passaporto.

Come non citare, poi, chi rivendica le fusioni allo scopo di dar vita ad un Comune superpotenza globale, perché, a detta di questi esperti di strategia militare, se invece che 5.000 abitanti nei hai 6.500, il tuo rinnovato peso all’interno dello scacchiere internazionale ti porta magari ad ottenere un seggio permanente all’ONU.

Vai loro a spiegare (ai fusionisti) che i Comuni non sono agenzie di promozione turistica, né associazioni di categoria del commercio.  Si occupano anche di anziani, di disabilità, di disagio sociale, di servizi sociali e sanitari, di territorio e di mille altre cose che hanno bisogno di prossimità, di vicinanza ai cittadini, altro che ingrandire, altro che marketing, altro che politica di potenza comunale.

Vai a loro a spiegare che mentre si gioca con il Risiko delle fusioni, tra chi ogni giorno pesca una “carta obiettivo” diversa e chi attacca la Kamchatka, gli abitanti dei piccoli Comuni sono ormai retrocessi a cittadini di serie B, con un diritto all’accesso ai servizi pubblici messo in discussione proprio da quei processi di accentramento amministrativo di cui le fusioni fanno parte. Vai loro a spiegare che non sarà certo quel po’ di denaro degli incentivi che arriverà per qualche anno nelle casse comunali a restituire ai quei cittadini i loro diritti negati.

Loro ti risponderanno – con il fare di Mosé che scende dal Sinai con le Tavole della Legge – mostrandoti le apodittiche slide di un businness plane che ti dimostra come la fusione sia indispensabile, elaborato da una società appositamente pagata per predisporre le slide di un businnes plane che ti dimostri come la fusione sia indispensabile.

I fusionisti non sentono ragioni perché si sa: il marketing conosce ragioni che la ragione non conosce.