Bando alle gerarchie e alle convenzioni sociali. E’ carnevale, tempo del “rovesciamento” e della “simulazione” (delle maschere, dunque), perché tale era in antico questo periodo dell’anno in cui, giusto per sovvertire l’ordine consueto della vita, era tollerato lo scherzo e persino la dissolutezza. Lo studioso delle religioni Mircea Eliade nel suo Mito dell’eterno ritorno giunge alla conclusione che in certi riti dove, appunto, viene scatenata la licenza, violato i divieti, fatto coincidere i contrari, si intende alludere in tal modo al dissolvimento del mondo (del proprio mondo) per rifondarlo nel tempo mitico del caos, del principio.
Se poi ci interessassero i nessi tra carnevale e letteratura, restano fondamentali gli scritti di Michail Bachtin, quando nell’ambito di un’analisi generale sul romanzo, individua nel genere “serio-comico” un chiaro legame con il folclore carnevalesco. Il grande teorico russo parla di una “carnevalizzazione della letteratura” per il modo con cui essa ha saputo usare la parodia, l’ambivalenza, l’eccentricità, la “gaia relatività di tutto”. Lo stesso Bachtin evidenzia come l’archetipo del carnevale abbia decisamente influito su certa letteratura antica, medievale e rinascimentale. Si pensi al teatro comico di Aristofane e Plauto, alla satira sociale del filoso greco Menippo, al Satyricon di Petronio, a Le metamorfosi di Apuleio, alla smitizzazione degli dèi nei dialoghi di Luciano. Una ricchissima letteratura imperniata sul comico-parodico, che prelude al grande romanzo rinascimentale (Rabelais con il ciclo di Gargantua et Pantagruel e, uno su tutti, il Don Chisciotte di Cervantes). Dopo di che, avverte ancora Bachtin, inizia la graduale recessione del carnevalesco. Un declino legato alla stessa idea di carnevale, alla sua ragion d’essere utopico-popolare, alternativa, trasgressiva. Anche noi possiamo dire che ormai è festa tanto chiassosa quanto inautentica. Fa solo il verso a qualcosa che non ci appartiene più. Una efficace testimonianza letteraria di questo carnevale di(s)messo emerge dalle pagine di Senilità, il romanzo di Svevo che, guarda caso, inizialmente l’autore voleva intitolare Il carnevale di Ernesto. In quella vicenda la metafora carnevalesca (un carnevale fiacco e precario) è assunta per dire come sia illusorio il tentativo di risolvere noia e dolore nella festa, perché, finita “la mascherata”, ad essi la vita ci ricondurrà: “Ammaccati, sperduti, alcuni sarebbero ritornati all’antica vita divenuta però più greve; gli altri non avrebbero trovato mai più la quaresima”.