magenta rossoSe non dici che non ti piace il color magenta, in questi giorni a Siena, qualcuno ti affibbia subito l’etichetta: «sei un servo del regime», «lavori per la restaurazione del potere dei soliti». Se dici di aver provato emozioni la sera di venerdì scorso in Piazza del Campo, sei «complice dei raccomandati del Comitato». Se ti sono piaciuti i ciclamini in Piazza del Campo, «sei un giornalista un Sacco collaborazionista».  Insomma, chi negli anni passati è stato coraggioso e lungimirante nello scagliarsi ben prima di tanti – compreso lo scrivente, che alcune cosette le ha capite troppo tardi – contro il potere dei Mussari, dei Ceccuzzi, dei Mancini, dei Minucci, oggi si scaglia contro il color magenta e i progetti di Siena 2019.

Anzi, gli oppositori alla candidatura fanno di più e costruiscono tre equazioni: «Siena 2019 = restaurazione; soldi della candidatura = fondi per alimentare il solito vecchio potere; sostenitori della candidatura=servi del regime». Bene. Siccome io rispetto tutte le opinioni, ci vuole rispetto anche da parte di questi che lanciano accuse ogni minuto: perchè la scienza infusa non ce l’ha nessuno. Si può certo affermare e anche con motivazioni fondate: non mi va la candidatura, sono sbagliate le progettazioni, non c’è stata sufficiente condivisione e tutto il resto, compreso il color magenta, senza pensare di essere una sorta di crociato senza macchia e senza paura, o l’ultimo difensore della città depredata. Senza, soprattutto, accusare chi la pensa in modo parzialmente o totalmente diverso da loro, su questo tema – magari invece in sintonia su altri – di servili complicità. Non è che essere “contras” si tramuti automaticamente nell’essere avanti agli altri. O di averci capito di più. Non è sempre così. Anche i “contras”, comunque sempre più utili dei “fedeli silenti”, a volte possono sbagliare. O eccedere, inforcando lenti bifocali, che a volte fanno girare la testa o sbagliare la prospettiva.

Insomma, si può essere sostenitori della candidatura, ardentemente sperare di vincere, senza doversi sorbire i sorrisini supponenti dei “contras”, o le accuse di cui sopra sparse in tanti profili di Facebook. Oltretutto, così facendo, si incrina un fronte ben più importante: quello di coloro che vogliono, ardentemente, che emergano fino in fondo le connivenze e le complicità tra la politica e la finanza deviata, che sono state la piattaforma reale dello scempio di Siena. Chi non vuole cedere all’oblio sulla città depredata, non necessariamente è un “contras” su tutto. In ogni realtà, ladddove si gridi: «tutto va male», si finisce sempre per fare il gioco di chi ha in mano il pallino. A Siena, per esempio, vanno male tante cose: in primo luogo si è affievolita l’ansia di giustizia sullo scempio, sono scarsamente documentabili i processi di reale rinnovamento della politica, non si trova il bandolo della matassa per rilanciare prospettive di lavoro. E tante altre cose. Ma se si dice che tutto va male, si fa il gioco dei restauratori veri, che hanno buon gioco nell’additare come “sterili estremismi”, le critiche pur motivate.

Le diatribe sul color magenta, in questi giorni, hanno superato di gran lunga le discussioni sul Piano strategico 2015-17 della Fondazione Mps, che pure in gran parte sulle partecipate è pervaso da un “profondo rosso”. E apre squarci inquietanti sul futuro di chi lavora alla Siena Biotech, a partire dal 1 gennaio 2015. Sulla Chigiana, il Piano, afferma l’apertura ai privati – giusto – ma magari sarebbe stato bene subito dichiarare un argine, un limite insuperabile alla privatizzazione. Altrimenti, come fa Tomaso Montanari, si può perfino pensare che l’operazione tentata da Clarich di far fuori tre consiglieri di amministrazione dalla Chigiana, sia l’anticamera di una privatizzazione strisciante. Tema culturale serio, molto più del color magenta. E altra questione culturalmente significativa per il futuro della città: l’ipotesi di un fermo di due mesi del Santa Maria della Scala – poi precisata dal sindaco come «un’eventuale breve fase di passaggio nei mesi di gennaio e febbraio, durante i quali la visita del complesso sarà comunque sempre possibile» – apre comunque temi di grande riflessione, per esempio nel rapporto tra l’interesse pubblico da salvaguardare e la necessità di risorse private per sopravvivere. E questi teatri belli e impossibili, i Rozzi, i Rinnovati, restaurati a peso d’oro negli anni delle vacche grasse e sempre chiusi, o aperti con affitti a peso d’oro a compagnie della città altrimenti costrette a rappresentare nel salotto di casa propria? Sono un altro terreno culturale su cui riflettere, mica da poco. Su tutto questo, invece, non vedo gran fervore.

Un amico non senese, piazzato dal centrodestra in una importante partecipata in Toscana, stamani mi ha detto: «Sono stato a Siena, complimenti. Ci sono tornato dopo 30 anni, dopo aver frequentato la vostra Università. E mi sembrate la città meno stravolta negli anni. Pulita, con negozi decorosi, ordinata». E io: «Si, ma tu sapessi quanti danni hanno fatto. E poi la mattina in Piazza del Campo è un turbinìo di camioncini, e ci sono certe foto con la spazzatura e i cartoni non raccolti…». Lui mi ha bloccato e mi ha detto: «Si ma Siena resta sempre la più bella». E ora mentre scrivo, rifletto: perchè ho sentito il bisogno di sminuire quell’omaggio alla bellezza della mia città, che veniva da un “forestiero”? Perchè lui era il difensore della mia città e io l’accusatore?  Domande inquietanti, in una città dove il doveroso e irrinunciabile diritto di critica, e l’altrettanto doveroso e irrinunciabile anelito alla giustizia completa sullo scempio della città, corrono il rischio di debordare verso uno stillicidio continuo di lamentele e un eterno “denuncificio”.

Ci pensino soprattutto i leader dell’opposizione, che giocano solo in contropiede rispetto agli autogol del Pd e di Siena Cambia. Se ne hanno la capacità, smettano di additare solo alle inefficienze della maggioranza e mettano la faccia su proposte concrete di rilancio della città. Svelino i programmi alternativi al centrosinistra, facciano capire meglio come governerebbero, come risponderebbero alla crisi profonda della città, della quale molti di loro certamente non hanno responsabilità. Per ora non lo hanno fatto: battagliano certo in consiglio comunale e su Facebook, ma la prospettiva è nebbiosa. Forse un “mi piace” in meno potrebbe abbondantemente essere sostituito con l’impegno percepibile a costruire una coscienza critica vera e profonda, a radicare tra i cittadini una cultura reale dell’opposizione, che non può essere il trionfo della sbecerata o la rincorsa dietro ad ogni populismo.