Come drappelli di riservisti, pluridecorati dalla vita e con gli inevitabili acciacchi dell’età, incedono compatti dietro un ombrellino che a mo’ di guidone è segnale di marcia e di raccolta. Sono i turisti a tempo (solo diurno), fanti di cuori (in affanno) su e giù per le piagge di Siena, salvo imbambolate soste nei luoghi deputati alla cartolina che ciascuno ormai ricava dalla propria fotocamera… con vista. Strana categoria di viaggianti non-viaggiatori, guardano il mondo senza vederlo, attraversano località senza che nulla resti loro addosso. Non si accorgono nemmeno della scontrosità degli indigeni, che tali invasioni mal tollerano per una sorta di supponenza ‘sentimentale’; cioè a dire: non può essere trattata così questa città tanto bella e amabile. Ben altri sguardi, attenzioni, intimi struggimenti ella richiede.
Ma, forse, proprio da questo legittimo risentimento, potrebbe nascere un quesito che si fa quanto mai attuale nel momento in cui si pensa Siena capitale europea della cultura. Ovvero: sono certi i Senesi che il loro modo di vivere e di ‘interpretare’ la città, sia, oggi, quello giusto? Esiste (e resiste) infatti, anche da parte loro, il ‘consumismo’ di un mito che per quanto nobile è ancora troppo legato alla leggenda romantica di Siena. Quella nata poco più di un secolo fa e che ha intessuto un racconto sulla città definendone la visione, la percezione ideale ed emotiva. Con tale registro narrativo ci è stata tramandata una educazione sentimentale verso il luogo (meraviglioso, non v’è dubbio) in cui abbiamo avuto la fortuna di venire al mondo. E con immutato ‘lessico famigliare’ si è continuato a trasmettere la leggenda che piace, rassicura, inorgoglisce. Chissà, però, se non sia giunto il momento di far progredire quel racconto, non certo smentendo il già detto (peraltro detto assai bene fino a costituire un mito letterario), ma per far sì – parafrasando quanto scrisse Alfonso Gatto – che questa città antica, mai diventi ‘remota’. Si tratta, insomma, di ricomporre al presente una narrazione per poter nuovamente decifrare e ‘comprendere’ Siena. Seguendo magari – se ci è permessa la suggestione di un paragone – il procedimento analogo a quello attuato in Palazzo Pubblico da Simone Martini con la sua Maestà: stupendo sviluppo di una consuetudine figurativa che andò ad ‘informarsi’ a nuovi universi culturali. La questione per Simone non fu solo di forma, ma di significati; di come, dall’interno di una tradizione, si potesse capire, illuminare (e di quale luce!) la realtà del momento.