Io lo adopero ancora il vecchio detto: un buon cronista si vede dalle scarpe. E quelle scarpe devono essere consumate, anzi, logore, a dimostrazione di tutta la strada che si è fatta per vedere, ascoltare, registrare.
E’ questa la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo Americani di John Jeremiah Sullivan (Sellerio), libro di straordinari reportage attraverso un ‘America insolita. Un’America che è, in gran parte, quella del dopo 11 settembre, ma che soprattutto è quale raramente ho trovato nelle pagine dei libri e dei giornali.
Perché questa è la seconda cosa che mi è venuta in mente: c’è bisogno di buone gambe, ma anche di uno sguardo che vaghi irrequieto e si posi su ciò che non è scontato. Di tanta voglia di setacciare la realtà alla ricerca di risposte non date.
Scrittore errante, reporter inquieto, Sullivan dalla curiosità è come divorato. E’ fame che non si sazia e che per ogni pasto restituisce una storia.
E quante storie racconta Sullivan. Un grande raduno di “rock cristiano” e i primi passi sul palcoscenico di Michael Jackson. L’uragano Katrina e un week end a Disney World. I protagonisti di un reality show in tour tra discoteche e localini più o meno sordidi e uno scrittore del profondo Sud colto nell’ora del suo inarrestabile declino.
Per la New York Times Book Review è la più importante raccolta di saggi e reportage dall’uscita di “Una cosa divertente che non farò mai più” di David Foster Wallace. Non sono in grado di giudicare, però vale la pena.