C’era la musica, dentro i campi di concentramento: non solo a Terezìn, non solo per allietare i massacratori nazisti o per coprire le grida dei torturati, musica che non era sfondo e colonna sonora, ma piuttosto atto di resistenza, affermazione di dignità.
C’erano i musicisti, dentro i campi di concentramento: compositori e concertisti, direttori di orchestra e cabarettisti, primi violini e contrabbassisti di quintetti jazz, uomini sul ciglio del precipizio ma che non lesinarono energie per la musica, che bruciarono perfino le residue possibilità di salvezza, per la musica.
E c’è un musicista dei nostri tempi, Francesco Lotoro, si chiama. Io non ne avevo mai sentito parlare, ma è una vita che si è messo alla ricerca della musica dei campi, per strappare all’oblio ogni opera, per ridare vita a ogni nota. Una missione portata avanti con amore, tenacia, un pizzico di follia. Per essa ha rinunciato a contratti e possibilità di carriera e più volte ha prosciugato il conto in banca. Ha girato il mondo, dietro sopravvissuti e famigliari, archivi e scantinati, da archeologo della memoria. Ha già salvato 4 mila spartiti e prodotto decine di cd con quella musica, ma ancora non si è fermato.
La storia dei musicisti dei campi e la storia del musicista che da quei musicisti si è sentito chiamato. Con la consapevolezza che la memoria si salvaguarda in molti modi, che le testimonianze possono non essere solo parole.
Tutto questo è raccontato da Thomas Saintourens in “Il maestro” (Piemme). Un libro da leggere, che interroga sulla necessità dell’atto creativo, della fame di bellezza, anche nell’inferno di un lager.