Domenica 16 giugno 1743. A Siena la primavera già scaldava i pertugi dei vicoli, ma a soffiare tra muro e muro non erano i refoli della stagione nuova, quanto il racconto di un fatto incredibile. All’Ospedale di piazza Duomo aveva reso l’anima a Dio una donna che tale risultò solo quando il daffare dei beccamorti spogliò un “maschio” di grintoso aspetto ritrovandosi dinanzi un corpo di femmina. Quella passing woman – avremmo detto oggi, o più sbrigativamente trans – rispondeva al nome di Caterina Vizzani, ragazza romana, che sotto il falso nome di Giovanni Bordoni svolgeva mestiere di servitore da persona seria ed efficiente, salvo il fatto di avere nomea di donnaiolo perennemente arrapato. Il Bordoni aveva costruito il proprio personaggio senza nulla trascurare. Ostentava la propria virilità con un adeguato lessico da caserma, vantava gonorree contratte nei bordelli, lasciava intuire sotto i vestiti una generosa dotazione maschile (in verità una guaina riempita di cenci, mentre badava a comprimersi il petto con delle bende).
Era finito (finita) dalle parti di Siena in fuga da Roma con la giovane amante (nipote di un prete) i cui parenti non gradivano affatto le attenzioni di quel garzone verso la loro creatura. Da qui patemi e stizze della famiglia. Il reverendo zio assolda un sicario all’inseguimento dei due. Il killer rintraccia gli amanti nei pressi di Siena e spara al Bordoni ferendolo di brutto. Al Santa Maria della Scala i cerusici se la presero forse con troppa calma. Caterina/Giovanni, stesa su un lettuccio dell’antico Spedale, ormai più là che di qua, guardò per l’ultima volta una bella fanciulla tra quelle dipinte sulle pareti dell’immenso ricovero, sgranò gli occhi e se ne tornò al Creatore. Giusto domineddio, da supremo artefice, le avrebbe pur spiegato perché, impastati Adamo ed Eva, non avesse previsto una terza possibilità. Così, dopo soli 25 anni di vita e di sofferta identità, si era spenta l’esistenza di Caterina Vizzani morta per amore.
Donzella di Lesbo Nel secolare nosocomio tanto distratte erano state le cure per Giovanni, quanto zelanti e morbosi divennero gli interessi per il corpo di Caterina. Il suo apparato femminile venne osservato fin troppo. Accertata l’illibatezza della ragazza, fu deciso che nulla ostava affinché fosse sepolta tra le vergini. Considerato come tale categoria registrasse all’epoca un misero anagrafe, ci fu anche chi si spinse a proporne la beatificazione. Poi l’idea apparve un po’ azzardata. A studiare il caso giunse prontamente la scienza nella persona di Giovanni Bianchi, cattedratico di Anatomia umana all’Università di Siena. Un eclettico personaggio riminese, scienziato e poligrafo, noto anche con lo pseudonimo di Iano Planco. L’insigne anatomopatologo fece asportare “le Parti della Generazione”, escluse l’ipotesi di ermafroditismo (a meno che non si volesse alludere a un ermafroditismo mentale) e concluse che Caterina altro non era se non una “donzella di Lesbo”. La questione, pertanto, atteneva la psicologia e la sfera dei comportamenti sessuali. Assolti i suoi compiti autoptici, il professore non restò però insensibile ai risvolti letterari della vicenda. E con il pretesto della scienza volle scrivere “Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per ottanni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj Casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo Cadavero”.
Alla maniera di Boccaccio Il Bianchi, che non era nuovo alle suggestioni narrative del Boccaccio, proprio alla maniera del certaldese imbastisce una storia sugli «strani veramente ed incredibili […] appetiti umani di Catterina», quasi a replicare la decameroniana convinzione che il piacere sia componente irrinunciabile dell’esistenza e che certi irresistibili “appetiti” non possano essere soffocati ponendo addosso a una giovane vesti monacali. Del resto erano troppe e ghiotte le similitudini boccaccesche. Caterina, dopo il decesso, viene esposta in chiesa mentre il popolo «da tutta la Città accorreva per vederla, massimamente ancora perché alcuni d’ordine religioso pretendevano che per aver serbata con tanta costanza castità con gli uomini fosse Santa». Tale e quale al ser Ciappelletto del Decameron, incallito peccatore che in punto di morte riesce a ingannare il confessore e, quindi, ad essere venerato come “santo uomo”. O ancora il travestimento della Vizzani poteva facilmente essere ricondotto a quella scena della Giornata seconda, allorché «Alessandro, posta la mano sopra il petto dell’abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate …».
Insomma, la penna del docente di anatomia attinge eccessivamente al morboso e all’ironico. Come quando scrive che «la forza d’Amore porta Catterina a travestirsi da uomo, indossando un bel Piuolo di Cuojo ripieno di cenci». Una frase del genere e altre simili descrizioni ad effetto non superarono la censura del Revisore per l’Inquisizione che con implacabile forbice operava in Venezia, per cui l’operetta di Bianchi uscì clandestinamente a Firenze, con la falsa indicazione del vero tipografo veneziano Simone Occhi. Probabilmente la fregola letteraria (e non solo letteraria) fa dimenticare a Bianchi l’aspetto drammatico racchiuso nella storia della giovane Vizzani. Ma non fu questo aspetto a sollevare le ire degli ecclesiastici, quanto il sottile significato eversivo che l’opera dell’anatomista conteneva rispetto alla morale corrente. Affrontando, peraltro, il tema di quale follia ci fosse “nell’amare solamente quelle del medesimo sesso”.
In nome di Amore La storia di Caterina Vizzani è stata riproposta recentemente in un libro del sociologo Marzio Barbagli (Il Mulino) intitolato “Storia di Caterina che per ott’anni vestì abiti da uomo”. L’autore prende spunto da questa intrigante vicenda, anche per raccontare come sia stato vissuto e considerato l’amore gay ai tempi in cui le teorie parlavano solo di corruzione morale o di anomalie fisiche. Questioni di genere e di identità sessuale nemmeno potevano essere poste. Al vocabolario erano estranee parole come ‘omosessuale’ e ‘travestito’. Sappiamo che la ‘fuitina’ architettata alla volta di Siena da Caterina e dalla sua giovane amante mirasse addirittura al matrimonio. Ma come ebbe a dire Bianchi «in nome di Amore grandi disastri ha sofferti, e in fine la morte medesima crudelmente ha incontrata».