FIRENZE – Innovatore della scena che ha attraversato il Novecento, Carlo Cecchi è stato protagonista di molte stagioni del Teatro Niccolini di Firenze. E su questo palcoscenico torna, da giovedì 2 a domenica 5 dicembre, portando con sé due perle del repertorio eduardiano, “Dolore sotto chiave” e “Sik sik l’artefice magico”, un dittico sul mondo del teatro come metafora della vita. Con Carlo Cecchi, che cura anche la regia, salgono sul palco Angelica Ippolito, Vincenzo Ferrera, Dario Iubatti, Remo Stella e Marco Trotta. Inizio ore 19,30 (domenica 5 dicembre ore 16).

Lo spettacolo

“Dolore sotto chiave” è una girandola di situazioni grottesche, un gioco beffardo sul senso della morte, sulla sua permanenza nelle nostre vite, sulla sua esistenza nella nostra quotidianità. C’è un po’ di morte in ogni vita, sembra dirci il drammaturgo, e lo fa con irresistibile comicità. Nasce come radiodramma nel 1958 con Eduardo e la sorella Titina nel ruolo dei protagonisti, i fratelli Rocco e Lucia Capasso. Viene portato in scena due volte con la regia dell’autore, con Regina Bianchi e Franco Parenti nel 1964 e nel 1980 con Luca De Filippo e Angelica Ippolito.

“Sik Sik l’artefice magico”, atto unico scritto nel 1929, è uno dei capolavori del Novecento. “Come in un film di Chaplin – spiega Carlo Cecchi – è un testo immediato, comprensibile da chiunque e nello stesso tempo raffinatissimo. Si -Sik (in napoletano, “sicco” significa secco, magro e, come racconta lo stesso Eduardo, si riferisce al suo fisico) è un illusionista maldestro e squattrinato che si esibisce in teatri di infimo ordine insieme alla moglie Giorgetta e Nicola, che gli fa da spalla. Una sera il compare non si presenta per tempo e Sik Sik decide di sostituirlo con Rafele, uno sprovveduto capitato per caso a teatro. Con il ripresentarsi di Nicola poco prima dello spettacolo e con il litigio delle due “spalle” del mago, i numeri di prestigio finiranno in un disastro e l’esibizione si rivelerà tragica per il finto mago ma di esilarante comicità per il pubblico.

Carlo Cecchi restituisce con questo dittico l’amarezza e il realismo di Eduardo De Filippo, la sua capacità di graffiare anche con una sola, fulminea, invenzione paradossale. Un confronto tra due intelligenze inflessibili e rivoluzionarie che hanno da sempre combattuto, dentro e fuori la scena, per un “teatro vivente”. Un rigoroso esempio di coscienza critica nel classico gioco “del teatro nel teatro”, proprio attraverso quella contrapposizione tra realtà e finzione, spinta oltre l’asfittico dibattito tra vita e forma.