La mattina del 19 settembre 1985 piazza del Duomo aveva allestito la sua consueta scena di turisti, bancarelle, piccioni, risplendenti marmi. Ma ad incuriosire era un insolito via vai di gente dalla parte dell’Ospedale. Finché il fruttivendolo ambulante che presidiava l’ingresso del nosocomio non assunse l’incarico di informare stranieri e indigeni che «era morto uno scrittore importante». Verissimo. Infatti, a seguito di una emorragia cerebrale e tentato un intervento chirurgico, ci aveva lasciati Italo Calvino. Era stato colpito da ictus nella sua casa di Roccamare (Castiglione della Pescaia) e quindi trasportato a Siena, al Santa Maria della Scala.
Da un affastellato archivio di vecchi giornali faccio riemergere un faldone. Fogli ormai crettati dal tempo riferiscono che il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, giunto a Siena in forma privata, ha confidato alla vedova Esther Judith Singer (per tutti Chichita) di essere un ammirato lettore delle opere del marito. Il Presidente aveva già espresso il proprio cordoglio ufficiale dicendo come la scomparsa dello scrittore «privasse il nostro Paese di una presenza spirituale creativa e stimolante, di una voce tra le più libere e coerenti di questo secolo, di un intelletto poetico che come pochi ha saputo esprimere la verità dell’universo umano». La polverosa emeroteca (incredibile è come in soli trent’anni carta e memoria sbiadiscano in un impercettibile pulviscolo) restituisce un mondo lontanissimo. Presidente del Senato è Amintore Fanfani (‘il rieccolo’ di molte stagioni politiche), a presiedere la Camera Nilde Jotti, che nella circostanza non manca di ricordare «la profonda influenza della Resistenza sulla prima e subito famosa opera di Calvino, la sua coscienza critica e civile». Sul «rigoroso e coerente impegno» dello scrittore si pronuncia anche il Capo del Governo Bettino Craxi e rimpiange colui che «con la sua opera ha testimoniato un’attenta analisi della condizione umana». Indubbiamente più interessanti le terze pagine dei quotidiani in cui studiosi e letterati ricostruiscono un quadro critico su questa figura innovativa della nostra letteratura. Persino L’Osservatore Romano dedica un lungo pezzo al «viaggiatore incantato e inquieto nella notte del reale e dell’irreale». Il giornale vaticano fa riferimento a “Palomar”, l’ultimo libro di Calvino, perché in quelle pagine si avverte «un’ansia di tendere a un risultato completo e definitivo, anche nella coscienza di non poterlo raggiungere: una leopardiana sete di assoluto che mira a sentire l’universo come specchio della realtà storica e umana».
Presidente a mala pena di me stesso e del mio piccolo parlamento di sentimenti, andai anch’io a rendere omaggio allo scrittore. Mi aveva sempre affascinato la sua padronanza degli artefici narrativi, quella scrittura esatta, geometrica, controllata. Quando entrai nella camera ardente allestita all’interno del Santa Maria avvertii quasi una incongruenza tra la smisurata, dilagante cupezza del millenario ospedale e la misura precisa e luminosa della pagina calviniana. Mi parve che, per quanto bello e prestigioso, non fosse quello il luogo adatto per lui. Fu inevitabile, per contrasto, non pensare alla luce del mare al tramonto, a quella “spada del sole” in cui il signor Palomar, “uomo tardivo”, fa la sua nuotata serale dentro «il riflesso che da bianco-incandescente si colora d’oro e di rame».
Nei primi giorni della degenza, a chi lo stava accudendo, Calvino aveva detto che non sapeva dove esattamente si trovasse, ma che l’atmosfera che respirava gli pareva quella di Siena. La città – come aveva scritto una volta – «le cui immagini sono così soverchianti e prepotenti da non lasciare un margine di spazio e di silenzio».
E chissà – mi venne da pensare – per quale bizzarro gioco dei “destini incrociati”, lui (ligure nato a Cuba) sarebbe dovuto morire proprio a Siena. Forse perché somigliante a una delle sue “città invisibili”. Anch’essa, a suo modo, parabola etica ed estetica, allegoria metafisica. Forse città di sogno in cui la complessità del mondo e dei suoi accadimenti si trasfigura in rarefatti luoghi mentali, svincolati dal tempo e dallo spazio. Persino le austere mura dello Spedale senese potevano essere bastioni di una qualche invisibile città calviniana. Comunque sia, ogni qualvolta, nell’asciuttezza delle note biografiche, leggo “nato a Santiago de Las Vegas il 15 ottobre 1923 e morto a Siena il 19 settembre 1985”, continuo a chiedermi quale sorprendente arcata di cieli e di mondi abbia compiuto l’esistenza di Italo Calvino.
I suoi resti mortali riposano oggi nel cimitero di Castiglione della Pescaia, tra rose, siepi di rosmarino e macchia mediterranea. Là è sepolto anche l’amico Carlo Fruttero. Per anni avevano lavorato fianco a fianco alla Einaudi, entrambi trascorrevano i mesi estivi nelle loro villette a Roccamare. Passeggiavano insieme, spesso in silenzio. A loro piaceva quel mare, il profumo dei pini, la luce che si amministra nelle diverse ore della giornata. Era il luogo ad avere scelto loro, non viceversa.