Se a Venezia una notte di inverno un poeta sedesse al calduccio “d’epoca” del Caffè Florian, potrebbe anche scrivere versi del tipo: «La nebbia rosa / e l’aria dei freddi vapori / arrugginiti con la sera / il fischio del battello che sparve / nel largo delle campane. / Un triste davanzale, / Venezia che abbruna le rose / sul grande canale. // Cadute le stelle, cadute le rose / nel vento che porta il Natale». Questo fece, appunto, Alfonso Gatto componendo la poesia “Natale al Caffè Florian”. Testo di ovattata malinconia a cui – immaginiamo – il tintinnio delle tazzine non arrecò affatto disturbò; anzi, per contrasto, vi aggiunse mestizia.
Suggestione di certi luoghi chiamati Caffè, che non a caso vantarono di potersi definire “letterari”. Figuratevi che lo stesso Gatto intitolò un’altra sua lirica “Se morissi in un caffè…” (in tal caso si trattava del milanese Craja, che aveva visto nelle sue sale Quasimodo, Vigorelli, Ferrata, Sergio Solmi, Sinisgalli, Anceschi, Sereni) concludendo: «E’ morto anche il caffè, nel darne conto / il cronista dirà: “qui, sui divani / del Craja i sogni attesero il domani”».
E’ vero, quella dei Caffè letterari fu una invenzione perfetta (una moda, un rito, poi un mito) per fare incontrare personaggi eccentrici, talentuosi, esibizionisti, creativi, culturalmente curiosi e rivoluzionari. Basti pensare a cosa accadde tra i tavoli de Le Giubbe Rosse con la storica rissa che vide fronteggiarsi i futuristi milanesi di Marinetti e gli artisti fiorentini raccolti intorno alla rivista La Voce di Giuseppe Prezzolini.
Nella capitale, invece, furono i camerieri del Caffè Greco a prendere le ordinazioni, tra i molti, di D’Annunzio, Pascarella, Palazzeschi, Brancati, Flaiano, Penna. Mentre in quel crocevia multiculturale che era Trieste, laddove è naturale sentire aroma di caffè e d’Europa, ci si trovava a il Garibaldi, anche se Saba prediligeva la “serena disperazione” del più plebeo Caffè Tergeste, “Caffè di ladri, di baldracche covo, / io soffersi ai tuoi tavoli il martirio, / lo soffersi a formarmi un cuore nuovo”.
Tra i letterati contemporanei, e proprio a Trieste, un cultore del Caffè come “unico luogo in cui si può veramente scrivere” è Claudio Magris, che siede abitualmente al San Marco, perché lì “il tavolino su cui si poggia il foglio diviene la tavola di un naufrago, cui ci si aggrappa, mentre la familiare armonia che ci circonda si svuota, diviene l’incerta cavità del mondo, nel quale la scrittura si addentra, perplessa e ostinata”. Ecco detto, allora, come incanto e disincanto della vita possa tutto preconizzarsi in un fondo di… caffè.