L’anno scorso ManpowerGroup promosse una campagna a sostegno del Talento. Come dire: cercasi disperatamente persone con una marcia in più. Perché, a fronte della persistente crisi economica, ci troviamo dentro una realtà bloccata, priva di ricambio, che avrebbe bisogno di riforme, ma, non meno, di soggetti talentuosi. Ovvero energie intellettuali e creative tali da imprimere accelerazione allo sviluppo della società. Nel manifesto di sostegno alla campagna si leggeva, tra l’altro, che, se non viene consentito al talento (al potere della sua diversità e al valore della sua condivisione) di esprimersi, non può generarsi l’efficienza del sistema-Paese e la sua crescita. Tutto questo trova sintesi nel termine ‘meritocrazia’; che di per sé è cosa buona e giusta, almeno fino a quando – se perseguita con fanatismo – non rimuova princìpi di eguaglianza e di democrazia. Dunque, ben venga il merito: per un’alternanza della classe dirigente, per una mobilità tra classi sociali, per ridefinire valori etici, politici, culturali. Dinanzi a questa esigenza, vediamo, però, che lo scoramento, l’impotenza, la rassegnazione delle nuove generazioni, ha reso loro come invisibili, afasiche, prive di manifeste ambizioni. Al di là dei casi singoli che sappiamo esistere (giovani fortemente motivati, con brillanti curricula, notevoli capacità), ciò che li mostra e rappresenta nelle proprie aspirazioni (purtroppo esiste solo quanto ha visibilità) sembrano essere solo i talent show. Intendiamoci, ambizioni più che legittime quelle legate a espressioni artistiche. Basti pensare che l’Università Cattolica ha addirittura istituito “La Fabbrica del Talento”, un progetto nato allo scopo di coniugare la formazione con l’arte, attraverso l’uso e l’integrazioni dei linguaggi espressivi. Del resto l’arte aiuta e stimola la creatività in tutti i settori della vita sociale. Il problema nasce, piuttosto, nel momento in cui il desiderio di realizzare se stessi, mettere a frutto i propri talenti, va a degenerare nella “sindrome del successo”, scorciatoia – quasi sempre cosparsa di crudeli frustrazioni – per raggiungere soldi e notorietà. Insomma, le ambizioni sono necessarie per noi stessi e per gli altri, sono ragione di senso delle nostre esistenze. Tuttavia ci sono anche quelle che per Alberto Moravia erano “sbagliate”. A voler riflettere sui meccanismi psicologici del successo a ogni costo, esiste una terna di romanzi davvero illuminanti. Oltre al libro moraviano appena citato, ricordiamo Il rosso e il nero di Stendhal e il meno noto La preda di Irene Nemirovsky. Proprio in quest’ultimo, il protagonista, gran predatore all’inseguimento del successo, si accorge a un certo punto di essere divenuto lui la preda. Giungerà così alla conclusione che “Il successo, quando è lontano, ha la bellezza del sogno, ma non appena si trasferisce su un piano di realtà appare sordido e meschino”. A questo proposito potrebbe soccorrerci anche l’etimologia del verbo ambire: andare attorno. Ma a fare che?