Avemmo un medioevo anche cinquant’anni fa, quello cialtrone e spassoso de “L’armata Brancaleone” (1966), strepitoso film di Mario Monicelli che, fedele alla sua poetica, trasferì caratteri e spirito della commedia all’italiana nell’età di mezzo. Inscenando un medioevo sbrindellato, farsesco, del tutto agli antipodi di certo cinema hollywoodiano. Risultò un’operazione irresistibile, anche grazie agli sceneggiatori Age & Scarpelli, a un divertito e smagliante Vittorio Gassman, ad attori quali Gian Maria Volonté, Enrico Maria Salerno, Catherine Spaak. La trama è nota. In sella a un improbabile ronzino giallo, Brancaleone da Norcia, mediocre cavaliere dal forbito eloquio, guida un manipolo di miserabili verso le Puglie, per prendere possesso del feudo di Aurocastro, così come disposto in una pergamena (rubata al suo legittimo proprietario da quegli stessi disgraziati) vergata per mano dell’imperatore Ottone I il Grande.
Numerose – e di sicura presa comica – le peripezie vissute dalla combriccola nel lungo viaggio fino alla Puglia. Giunti alla meta, Brancaleone e compagni rischiano grosso: prima, di essere impalati dai pirati saraceni; poi, smascherati e condannati come usurpatori dal vero feudatario, di essere messi al rogo. A salvarli giunge il monaco Zenone, che convince l’usurpato cavaliere a liberare i sei disperatelli, poiché ancora legati a un voto secondo il quale, da crociati, avrebbero dovuto seguire lui stesso in Terra Santa.
Dalle terre di Siena alla Terra Santa – Coerentemente con l’impronta caricaturale del racconto, pure i luoghi nominati (Aurocastro, San Cimone, Bagnarolo, Panzanatico, Battilonta, Sutri) sono pressoché inventati. Il film fu girato in buona parte nell’alto Lazio e nella Maremma laziale. Ma alcune scene ebbero come sfondo anche le terre senesi, le zone circostanti Castiglione d’Orcia, Montalcino, San Giovanni d’Asso, le Crete di Asciano, i boschi della Val di Merse. Ben riconoscibile, ad esempio, il ponte della Pia (nel lessico di Brancaleone i ponti si chiamavano “li cavalconi”) dal quale il fabbro Mastro Vito, con tanto di incudine al collo, intendeva porre fine ai suoi giorni perché fatto cornuto dalla “mogliera”. Saranno ancora le “lande scanasciute e salvatiche” delle terre senesi che la sconclusionata compagnia attraverserà salmodiando: “Longo lo cammino ma grande la meta. Vade retro Satàn. Vade retro Satàn. Vade retro Satàn. Contro il saracino seguiamo il profeta. Sanza armatura, sanza paura, sanza calzari, sanza denari, sanza la brocca, sanza pagnocca, sanza la mappa, sanza la pappa…”. E nelle Crete ascianesi risuoneranno, infine, le parole dell’imperturbabile condottiero incitante i suoi prodi (si fa per dire!) alla conquista del Santo Sepolcro: “Bene, miei duri, bando agli scoramenti. Fora i petti, dritte l’armi, alte le insegne, baldanza!”.
Una lingua geniale – Il vero colpo di genio del film fu indubbiamente l’ideazione di una lingua riecheggiante il latino maccheronico, il volgare del Medioevo, i diversi dialetti che caratterizzavano ciascun personaggio in relazione alla propria origine geografica e sociale. Un idioma ritenuto frutto di pura invenzione, ma che oggi uno studioso di linguistica dell’Università di Pisa, Fabrizio Franceschini, ha analizzato dimostrando come si tratti di una lingua che, invece, attinge da fonti letterarie ben precise. Insomma, Monicelli, Age e Scarpelli anche in tal caso non improvvisarono. Scarpelli ha messo a disposizione dello studioso pisano il testo della sceneggiatura e, come documenta lo stesso Franceschini nel libro L’Armata Brancaleone. La sceneggiatura (Edizioni Erasmo, 2016), quel favellare apparentemente strampalato richiama, più o meno esplicitamente, i poeti siciliani, Jacopone, Dante, Pulci, Redi, Machiavelli, fino a Belli, Manzoni, Pascoli. Dunque, un parlare còlto che si alterna (talvolta si contamina) con forme dialettali (laziali, settentrionali, del sud) per rendere ancor più ‘credibili’ caratteri e maschere dei personaggi. Le battute del film sono ormai diventate modi di dire, citazioni cult. Giusto sul ponte della Pia avviene uno dei molti esilaranti dialoghi: «Fabbro: “Ma i dov’è che iate?” Mangold: “A Bengodi, cojon mio.” Taccone: “Semo li felici sordati di nobile cavaliere, di magnanimo duce e splendido eroe. Vienci anco tu!” Fabbro: “E quanno arriva? Quanno?” Abacuc: “Chi?” Fabbro: “Lo nobile cavaliere, lo duce, lo splendido eroe!” Abacuc [indicando Brancaleone rimasto chiuso nella gabbia in cui era stato imprigionato]: “Ma isso è!”».
Tale fu il fantasioso Medioevo di cinquant’anni fa, allorché la cupa Italia del Mille (ma sarà stata davvero cupa?) si accese sugli schermi proponendosi al di fuori di ogni oleografica rappresentazione. Magari un po’ cenciosa, ma assai umana. Perciò molto vicina al suo vero.