Un dono azzeccato. È quello ritirato da Carlo Lucarelli al Premio Pieve: lo scrittore ha infatti ricevuto il 31° Premio Città del Diario per i suoi racconti della Grande Guerra su Rai Storia e Il Corriere della Sera. Il dono per lo scrittore è un diario (bianco) come tanti ce ne sono al Piccolo Museo dell’Archivio a Pieve Santo Stefano: lo stesso Lucarelli, prima di ritirare il riconoscimento, ha visitato la struttura aretina, sfogliando le pagine virtuali di alcuni dei diari. «Osservare queste pagine non è solo un tuffo nella storia ma ci fa capire quanto sia cambiato il nostro modo di comunicare negli anni – racconta -. Oggi comunichiamo tutto coi messaggini, con K e X, ma non puoi esprimere davvero i tuoi pensieri con dei geroglifici. Questi diari sono fantastici, dovrei mettermi qui e guardarli tutti. Tutte le vite che troviamo qui sono emozionanti – continua ancora Carlo Lucarelli -. Anche la vita più noiosa è un romanzo. Per non parlare di quelle straordinarie. Perché ci dobbiamo dimenticare che esistono queste emozioni e queste informazioni? Mi chiuderei qui e li leggerei tutti, che voglia che ho ora di scrivere un diario».
Quale aspetto di questi diari l’ha colpita di più?
«Libertà e umiltà. La gente si sente libera nel diario, questo è il fatto. Libera di usare tutti i mezzi. Io scrivo romanzi e tanta roba non la posso fare. Per esempio non posso disegnarci sulle pagine del romanzo o scarabocchiare. Uno che scrive un diario ci disegna sopra, ci attacca le figurine, fa quello che vuole. La stessa cosa succede a scuola. Quando un bambino libero dai pregiudizi di stile o di mezzo, si sente di dire quello che vuole, e così attacca sul diario una foglia che ha raccolto in giardino. È meraviglioso. Il diario è così umile di per sé, tanto che una persona di poca cultura, anche chi non è andato nemmeno a scuola, se la sente di poter scrivere un diario, non si tira indietro, non si sente in imbarazzo. Col romanzo è diverso: se a qualcuno dici di scrivere il romanzo della propria vita si spaventa. Il diario per fortuna non fa paura a nessuno e alla fine chi scrive ci dà vita a testimonianze letterarie e poesia. Persone che non avresti mai pensato potessero scrivere, persone che non avrebbero mai pensato di poter scrivere, diventano degli autori sorprendenti».
Tra i diari presenti a Pieve Santo Stefano, Lucarelli rimane colpito dal diario di Clelia Marchi. Dopo la morte del marito, non potendo più condividere il lenzuolo matrimoniale con l’uomo che amava, la contadina decise di riversarci sopra tutta la propria vita, fino a che un bel giorno la consegnò direttamente nelle mani di Saverio Tutino, fondatore dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e del Premio Pieve. «Quel lenzuolo è una cosa schiacciante. Se si facesse un monumento nel mondo, fatto dall’Unesco, sulla scrittura sarebbe quel lenzuolo. Devono riprodurre quel lenzuolo. Voglio portare qui le mie figlie. Voglio che vedano il lenzuolo di Clelia Marchi e che si fermino a pensare. Magari torneranno a casa e scriveranno nel loro diario di aver visto un lenzuolo-diario e capiranno che grande valore può avere la scrittura, per sé stessi e per gli altri».
Un secolo fa l’Europa era divisa, ma unita da un’unica tragedia comune: la Grande Guerra. Dopo un secolo, oggi i Paesi dell’Europa e del Mediterraneo condividono un’altra tragedia umana, quella dei migranti. Quale può essere il ruolo della memoria in questo momento storico?
«Noi abbiamo uno strano rapporto con la memoria. Ci perdiamo delle cose, tante, troppe. Se avessimo mantenuto la memoria, saremmo persone diverse. Forse a livello familiare qualcosa è rimasto. Chi ha ascoltato il racconto dei nonni, magari si immagina cosa significhi essere un migrante. Per chi si è perso questa memoria sono cose nuove. Sono marziani che vengono da non so dove. A me viene in mente il fatto che molti migranti vengano dall’Eritrea e hanno un nome, Asmaret, che non sai se è un uomo o una donna. Mentre invece se avessimo mantenuto la memoria, visto che per 70 anni siamo stati la stessa cosa, Asmaret magari sarebbe stata tua cugina, e tu oggi però non lo sai. È tremendo non concepire tutto come un mosaico che si incastra. Esisterà nell’umanità una specie di istinto che lo porta a dimenticare il dolore. Come quello delle donne incinte che scordano il dolore del parto, altrimenti non avrebbero più figli. Così ci dimentichiamo il dolore. Sennò chi farebbe un’altra guerra dopo la Prima Guerra Mondiale, dopo la Seconda? Perché farne un’altra se tu ti ricordassi cosa è stato? Evidentemente abbiamo una memoria selettiva diabolica che dobbiamo combattere. Così ci accorgeremo di sapere già tutto e di non aver bisogno di altro orrore per sapergli dare un nome».