Se in letteratura esistesse la categoria della “esagerazione” è lì che andrebbero ricondotte molte delle pagine prodotte in epoca risorgimentale, nelle quali sono riversate, appunto, enfasi, passioni, idee, i motivi umani e politici che alimentarono l’anelito ad una nazione unita “di un volgo disperso che nome non ha” (così scriveva Manzoni negli Adelchi). Si dice, a ragione, che non sarebbe potuto esistere un Risorgimento politico senza un Risorgimento letterario. Fu infatti quest’ultimo a rimodellare e veicolare emotivamente ciò che si andava elaborando sul piano politico-istituzionale: libertà, uguaglianza, fratellanza, lotta contro l’oppressore. E spesso le due sfere (politica e letteraria) andavano a coincidere negli stessi personaggi, “intellettuali militanti” quali Guerrazzi, D’Azeglio, Berchet, Nievo, Mercantini. D’altra parte l’appello rivolto agli artisti da Mazzini era stato chiaro: “Manca alle arti… chi le concentri tutte a un intento e le affratelli in un pensiero di civiltà”. Si trattava dunque di un progetto morale che necessitava anche dei suoi cantori e pedagoghi. E tali furono, negli scritti patriottici, Foscolo, Manzoni, Pellico. De Amicis, Carducci. Autori che di riflesso nobilitarono anche chi, quanto ad esiti letterari, a loro fu decisamente “minore”.
In considerazione del fatto che quasi l’80 per cento della popolazione era analfabeta, a rendere davvero popolare la causa nazionale non fu, però, la letteratura,. La vera traslazione dei sentimenti patriottici verso i ceti più bassi avvenne, di fatto, con il melodramma. L’opera lirica assimilò così bene l’aura del tempo tanto da diventare il luogo in cui le sensibilità risorgimentali si alimentavano e amplificavano. Al punto che qualsiasi cosa si cantasse sulla scena, veniva interpretata (a prescindere dalle intenzioni degli autori) in chiave patriottica. E’ il caso del notissimo Va’ pensiero, oppure del coro di Ernani dove l’allusione politica vibra nei versi di Francesco Maria Piave: “… siamo tutti una sola famiglia / pugnerem con le braccia e co’ petti; / schiavi inutil più a lungo e negletti / non sarem finché vita abbia il cor”. Il melodramma, insomma, semplifica e divulga i temi che in letteratura sarebbero rimasti per i “pochi” e – per dirla con De Sanctis – consente l’incontro tra la “gente istrutta” e il popolo incolto. Oggi, se una memoria popolare del Risorgimento sussiste è ancora quella trasfigurata dalla poesia, dalla narrativa, dalla musica. Reminiscenze non trattenute in testa, ma – per indelebili traumi deamicisiani – più che altro in… cuore.