Andarsene a Capodanno. Un modo silenzioso, per uscire di scena. Distrattamente, quasi con un sussurro: in mezzo alle feste che stanno finendo, al resoconto dei cenoni, dei veglioni e ai giornali che dedicano la prima pagina agli amputati da mortaretti.
Se n’è andato quasi in silenzio, Aldo Agroppi.
Proprio lui, che silenzioso non lo era e neanche troppo discreto, e se c’era qualcosa da dire non si tirava indietro: un Toscano “di scoglio”, come Lido Vieri, e Nedo Sonetti. Di Piombino, dove le spiagge, i bistrot e il turismo sono un’invenzione recente, e la gente lavorava semmai negli altoforni, sotto quelle leggendarie ciminiere che hanno buttato giù tre mesi fa.
Tutto il contrario dei toscani “di sabbia”, come Lippi: che è di Viareggio e con il quale non gli pareva il vero di bisticciare, soprattutto quando era l’allenatore della Juve. E ricordo, alla Domenica Sportiva una litigata furibonda su un lontanissimo Sampdoria-Torino del ’72, quando Agroppi, con gli occhi di fuori, gli rinfacciava “lo scudetto che ci facesti perdere tu, e l’arbitro Barbaresco”. Roba di cinquanta e passa anni fa, ormai… Ma fate un salto su Youtube, o Wikipedia, e vedrete come andò effettivamente quella storia.
E se Agroppi non avesse il diritto di esserne ancora incacchiato marcio.
Logico che uno così non potesse che giocare nel Toro, e farselo entrare dentro.
Era, quello, il Torino più classico, o almeno il Toro come ce lo immaginavamo nei nostri sogni di ragazzi: una squadra senza mezze misure, che aveva Meroni ma anche Giorgio Ferrini. E poi Puja, Cereser, il giovanissimo Paolino Pulici e il famoso “tremendismo” che tanto piaceva a Giovanni Arpino: il colbacco di Gustavo Giagnoni, la maglietta tutta granata e la curva Maratona sempre piena come un uovo. La serra calda dove matura uno scudetto leggendario, che Agroppi non farà in tempo a vincere ma che festeggerà come fosse suo. Una storia molto “Toro” anche quella a pensarci bene; perché, nel frattempo, lo hanno dirottato in provincia. A Perugia, per il classico finale di carriera.
E poi, la carriera da allenatore. Breve ma non banale, nemmeno quella: come la rivolta di piazza, a Firenze, con i tifosi che volevano Antognoni e lui che non lo faceva più giocare. Che ai campini era contestazione ogni santo giorno e una volta dovette intervenire Passarella, con le cattive, a toglierlo dalle grinfie dei più facinorosi. “Faccio di testa mia, perché sono un tipo brutto e spigoloso”, disse. “Assomiglio a quei pesci che si usano dalle mie parti per insaporire il cacciucco”.
Io me lo ricordo, Agroppi, a Montepulciano: l’anno che il Toro vi fece il ritiro estivo, e tra lo stadio Bonelli e l’Hotel Granducato dove alloggiava la squadra c’era quella salitella sempre piena di gente a caccia di autografi e foto ricordo (non ancora selfie). E i calciatori, che non volevano saperne di percorrerla.
E ricordo quest’uomo brizzolato, che da vicino assomigliava a un cane spinone, prendere letteralmente per la collottola Gigio Lentini e scenderlo dall’automobile dove era incautamente salito, per evitare i tifosi.
“Proprio tu, che sei il Capitano del Toro…”.
E le urla, quella sera, le sentirono da Acquaviva. E forse anche dall’Abbadia.
Ti sia lieve la terra.