In queste settimane dove l’orrore sembra essere la cifra che caratterizza il tempo, mi sono trovata spesso a chiedermi cosa fare per fermarlo, a parte andare a combattere con i curdi in Siria e i tunisini in Tunisia. Come cancellare, bloccare, sradicare il flusso di odio cieco e insensato che una banda di tagliagole mediaticamente e militarmente molto ben organizzata sta riversando sul mondo con il prestesto di una guerra di religione che esiste solo nelle loro teste devastate. E non ho trovato nessuna risposta. Pensare che la soluzione non compete a me perché non sono nessuno e non conto niente sullo scacchiere politico mondiale è facile, evidente e scontato, ma non mi dá conforto. Mentre io ho bisogno di sapere che posso fare qualcosa, posso contribuire a sostenere le cause in cui credo. E non credo a nessuna piú di quella che salvaguarda l’esistenza del mondo in cui vivo. Sembrava una domanda destinata al silenzio e invece la risposta è arrivata. Sottoforma di utopia, certo, ma è arrivata. E come molte utopie ha un fascino sottile e coinvolgente, come un grande distillato ha una persistenza lunga, impalpabile, profonda. E ha un nome, Alice Waters.
Ammetto la mia ignoranza: fino a poche settimane fa non sapevo chi fosse e mi sono imbattutta in lei, o meglio, nel suo pensiero per caso, leggendo un lungo articolo di giornale che la riguardava e sventolava un titolo intrigante e sibillino In principio sará la patata. Alice Waters ha ancora un sogno. Un mondo dove al posto delle pistole si impugnino le forchette. E ritrovarsi intorno a un tavolo per condividere un BUON PASTO sia fondamentale e non accessorio nella vita quotidiana di singoli e famiglie. Settantuno anni di grazia e tenacia, ho scoperto che questa chef leggendaria negli Stati Uniti è l’equivalente di Carlo Petrini nel suo Paese (oltreché vicepresidente di Slow Food) e ha un seguito significativo fra le persone che contano: è lei che ha ispirato Michelle Obama per il famoso orto nel giardino della Casa Bianca. La sua utopia, che ho deciso di adottare, è portare o ri-portare le persone a consumare cibi preparati in casa e condivisi, semplici ma buoni, che nutrano il corpo e lo spirito perché «il cibo è un atto politico, ciò che mangiamo ci definisce. Mangiare insieme è l’atto civilizzatore per eccellenza. È il modo in cui le idee si tramandano ed è da lí che bisogna ripartire. Non vediamo la bellezza del mondo perché abbiamo perso la capacitá di sentire attraverso i sensi. Abbiamo reciso i cordoni con la natura che ci guarisce». E nella sua utopia, Alice Waters sa anche da dove bisogna cominciare per realizzare questa rivoluzione: dai bambini. Nelle mense scolastiche cosí come nelle famiglie. È un’utopia ma ha davvero un grande fascino e un buon senso auspicabile. Credo che anche le mamme dei tagliagole di cui sopra preferirebbero vedere i loro figli attorno a un tavolo con la bocca sporca di cibo e la forchetta in mano piuttosto che con un ghigno innaturale a stravolgere il viso imberbe e una pistola nel pugno.
La ricetta Nell’articolo su Alice Waters (Vanity Fair del 17 giugno) vengono menzionate alcune ricette della stessa che sono una piú intrigante dell’altra. Sulla carta sembrano semplici. Solo sulla carta. Io ho provato quella che mi suonava piú accattivante: albicocche al forno con gelato. Alice Waters lo consiglia al miele, io non ho mai avuto la fortuna di mangiarlo, il gelato al miele, quindi ho ripiegato su crema Buontalenti. Nella gelateria sotto casa ne producono una strepitosa. Poi ho messo la mia famiglia intorno al tavolo di cucina e ho iniziato a vivere la mia utopia.
P.s. Non vorrete davvero che scriva come si fanno le albicocche al forno, vero?