I luoghi mostrano molto più che paesaggi di cose, perché sono anche pensieri, ‘punti di vista’. Viene in mente, ad esempio, Otranto: la Bisanzio del Salento, estrema terra ad Est che si aggetta come ponte verso Oriente; protesa frontiera dove i millenni hanno incrociato civiltà, religioni, lingue; luccicante attracco di speranze. Ecco, da quella postazione di confine che l’acqua rende indefinibile, nasce spontaneo pensare al Mediterraneo. Nome di un mare, ma soprattutto di sponde, su ciascuna delle quali troviamo storie, pluralità, modi di concepire lo stesso Mediterraneo. Per Hegel, esso era “il centro della storia del mondo, il suo animatore, la sua condizione di vita…”. Era ed è, questa, la rappresentazione del Mediterraneo in un ‘unicum’ geografico-culturale di concezione molto europea e moderna. Vera solo in parte, in quanto non tiene conto delle divisioni, delle frammentazioni, delle differenze che appaiono quando le risacche di quell’unico mare restituiscono alla sabbia le più diverse rive. Basta del resto l’attualità con le sue guerre, conflitti, fondamentalismi, le esasperate rimostranze di identità, a mettere in crisi la visione idealizzata di un immenso territorio i cui confini piacerebbe ancora immaginare segnati dagli ulivi, le menti forgiate al crogiolo delle antiche filosofie, gli animi disposti alla Sapienza delle religioni del Libro. Ma non è così. Il Mediterraneo è ‘liquido’ anche quando si fa terra. E’ arcipelago complesso e molteplice. Costituisce, oggi, una sfida ai nuovi assetti geo-politici, mettendo in discussione il paradigma sul quale si è inteso fondare l’Occidente che alcuni ritengono ormai giunto al declino. E dunque non meraviglia se dinanzi a un tramonto si ripensi all’alba, al nascere dell’Occidente, e quindi ad una ‘mediterraneità’ difficilmente riconducibile ad unità storica e antropologica. Lo scrittore palestinese Edward Said parlava del Mediterraneo come di una complessità “di territori sovrapposti e storie intrecciate” e non disgiungeva la sua riflessione da una critica del concetto di ‘Orientalismo’ che – a suo dire – gli studiosi occidentali avrebbero relegato in stereotipi funzionali ad una visione eurocentrica del mondo. Da ciò – sempre a detta di Said – discendono le opposizioni radicali, le ossessive insistenze di ‘diversità’ rispetto a tutto ciò che è ‘altro’ dall’Occidente.
E’ comunque chiaro come vada ridisegnandosi una geografia che risponda a più aggiornate raffigurazioni di un Mediterraneo plurimo e meticcio. Vaste terre di frontiere che, giustappunto, pongono a-fronte i popoli. Lingue che si apprendono per trasporre parole, ma, anzitutto, per tra-durre esperienze umane. Così che su quel mare possa navigare la fluidità del dialogo, la certezza delle rotte, la pedagogia degli incontri. Forse già nella mitologia biblica è racchiuso il desiderio di tale prodigio, allorché “Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto”. Anche in tal caso si trattò di un passaggio da una storia all’altra.