Dal 1980, anno in cui fu pubblicato Il nome della rosa di Umberto Eco, il nostro immaginario di bibliofiliaci non può più prescindere da quello scriptorium dove l’ormai vecchio monaco Adso da Melk graffia l’ultima pergamena del racconto scrivendo: “Fa freddo, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (la rosa primigenia esiste in quanto nome, possediamo i semplici nomi). Criptica conclusione per dire che chiunque si ritenga depositario della verità può rendere la stessa verità quanto mai discutibile o addirittura risibile.
Fin troppo bravo è Umberto Eco a coinvolgerci nelle suggestioni di luoghi che ammiccano all’Abbazia benedettina di Melk, oggi in Austria, sede di una delle più importanti biblioteche d’Europa o allo scriptorium bobiense dell’Abbazia di San Colombano di Bobbio che fu soppresso dall’Inquisizione proprio per il suo patrimonio di libri con cui si intendeva documentare la “cultura universale”. Così come è chiara l’allusione alla borgesiana Biblioteca di Babele (biblioteca come specchio del mondo, contenuta in un edificio a pianta poligonale) mentre seguiamo le invettive di Jorge da Burgos che Eco fa muovere all’interno del disperante trinomio cecità, biblioteca, labirinto.
Fascino, dunque, del libro antico e degli ambienti dove nacque: gli scriptoria. Lì, appunto, venivano trascritti e confezionati libri la cui realizzazione poteva durare anche anni, con un maestro che di volta in volta suggeriva quali forme calligrafiche dovessero adottarsi, scritture dai seducenti nomi di “onciale”, “ben ventata”, “minuscola carolina”, “gotico antico”. Gli scriptores (non sempre competenti rispetto alle cose che andavano trascrivendo) potevano però commettere errori tali da rendere incomprensibile il testo. Allora avveniva la decora correctio, con una voce leggente l’antico testo per verificare la correttezza della versione appena effettuata. E poi altri monaci miniaturisti, chini a pigmentare capilettera e pagine con scene, ornamenti, grottesche.
Certo è che quando ci troviamo di fronte ad opere come l’Evangeliario di Lorsch (redatto tra il 778 e l’820 e detto Codex Aureus per la presenza di lettere in inchiostro dorato) si capisce ancor meglio perché in certe liturgie cristiane venisse incensato “il libro”. Ovviamente per le parole divine in esso comprese, ma non neghiamo come già la preziosità del suo aspetto potesse giustificare quel gesto tanto solenne, a somma gloria del sapere e di una bellezza pur soltanto esteriore.