Aristotele sosteneva che “il racconto è mito poiché sa comporre gli avvenimenti in unità, in cui appare la loro verosimiglianza”. Come dire che talvolta il mito appare più reale della realtà stessa, perché va oltre la mera narrazione dell’accaduto, arricchendo i fatti di molteplici suggestioni emotive e psicologiche.
Tutto questo è avvenuto anche nel caso della battaglia di Montaperti (1260), epico e sanguinoso scontro tra senesi e fiorentini, la cui drammaticità fu colta da Dante nella Commedia con quei celebri versi che miravano giusto a sottolineare “… lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso”. Il Poeta ritornerà sull’argomento pure quando, nel Cerchio dei Traditori, inciampa sulla testa di Bocca degli Abati, cosicché il nobile fiorentino – che secondo Dante sarebbe stato il traditore della battaglia di Montaperti – lamenta: “… Perché mi peste / se tu non vieni a crescer la vendetta / di Montaperti, perché mi moleste?”.
Passeranno gli anni, ma non il ricordo di quelle vicende. Tant’è che in epoca quattrocentesca, il barbiere-letterato Domenico di Giovanni detto il Burchiello (bizzarro personaggio che da Firenze fu esiliato a Siena per esplicite antipatie verso i Medici) versificò alla sua maniera strampalata: “Quando i Romiti furono sconficti / in val di Biena dalle pastinache / e fo’ sì grande la piena al Bozzone / che l’Arbia se n’empì di ceci in brodo / donde si crucciò l’Ombrone in Serchio”. Sorprenderà, poi, vedere citato Montaperti persino nel foscoliano Jacopo Ortis. Foscolo, infatti, (in cuor suo piagnucolava la doppia delusione per il mancato matrimonio con Isabella Roncioni e per la patria ceduta all’Austria) farà dire a Jacopo: “Sono salito a Monteaperto dove è infame ancor la memoria della sconfitta de’ Guelfi. Albeggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto silenzio, e in quella oscurità fredda… mi parea che salissero e scendessero dalle vie più dirupate della montagna le ombre di tutti que’ Toscani che si erano uccisi; con le spade e le vesti insanguinate; guatarsi biechi, e fremere tempestosamente, e azzuffarsi e lacerarsi le antiche ferite”. La letteratura sul tema registrerà ancora alcuni versi del giovanissimo Carducci: “Innanzi a te, splendente / pur anche nel fulgor del regno santo / balenò di vermiglia / luce il campo feral di Montaperto, / e pe ‘l tristo deserto / de le crete maligne / un fioco suon correa / come sospir di battaglier morenti”.
Ecco dunque servito il mito, quello che, grazie alla sua potenza visionaria, fa sì che la storia possa diventare letteratura.