Questi italiani ci rubano il pane e le donne
Così si diceva allora in Belgio, quando eravamo noi l’orda che si affollava la porta, i macaroni, l’esercito dei clandestini dalle mani callose e le facce annerite. Così si diceva allora e forse qualcosa cambiò solo dopo quel maledetto giorno dell’8 agosto 1956, a Marcinelle, con tutti quei corpi sepolti nella miniera, quelle vite bruciate, soffocate, spezzate.
La storia, forse, è davvero l’arte di porre domande, piuttosto che di fornire risposte. Nel caso, fa bene interrogare questo passato per capire ancora il nostro presente. Per cercare le radici, proprio in quei cunicoli di carbone, in quei morti, in quella parata di autorità a cui non seguì giustizia.
Ci ha fatto un gran regalo Paolo Di Stefano, con “La catastròfa” (Sellerio), libro che ci riporta a quella mattina in cui il cielo del Belgio era azzurro come non mai. Padroni delle miniere e volti di immigrati. Di Stefano sfugge alla tentazione di usare le sue parole, di tentare la strada del saggio, l’esibizione di chi le risposte ce l’ha davvero.
Piuttosto lascia parlare. Dà voce. Accoglie nella pagina il verbale e la testimonianza.
E questo libro diventa la parola di chi c’era.
Parole che mescola il dialetto di una terra lontana e si mescola al francese diventato abitudine.
Parola viva. Parola che mi fa pensare all’immigrato che oggi raccoglie pomodori. E anche ad altre stragi – pensate alla Thyssen di Torino – segnate dalla stessa incuria, dalla stessa ipocrisia.