La letteratura è conoscenza, viaggio, emozioni, scoperta di se stessi, degli altri e del mondo. Ne troveremo conferme anche in questa rubrica che, settimanalmente, proporrà frammenti d’autore. Un piccolo “manuale d’uso” per i nostri giorni comuni e, soprattutto, per i sentimenti che dentro quei giorni abitano.
Claudio Magris non adopera il computer, scrive a mano, e spesso lo fa seduto a un tavolo dello storico Caffè San Marco di Trieste. Dice: «in un caffè lavoro meglio, trovo l’essenziale per scrivere senza troppe distrazioni e i clienti non badano a me». In questi giorni è arrivato in libreria il suo ultimo libro intitolato “Non luogo a procedere”. Un romanzo sulla guerra, su tutte le guerre di ogni tempo, perché tale è l’ossessione che da sempre attraversa la storia dell’uomo. Pagine crude, spietate, tenere. A dare conto delle colpe comuni, a scavare nel dramma e nell’amore.
“Che cosa potevano essersi detti, il sergente americano sopravvissuto illeso alle granate tedesche che sembravano piovere lungo la linea gotica sulla Buffalo Division, 92 Infantry Division, il primo reparto formato interamente da soldati afroamericani, e arrivato poi con l’88a divisione nella città adriatica sospesa in un vuoto storico – Tlt, Territorio libero di Trieste, Terra di nessuno, caricatura della storia – e l’ebrea triestina che talora sembrava vergognarsi di essere scampata alle mazze ferrate e alla ciminiera di San Sabba, vergognarsi soprattutto di quella sua adolescenza felice a Salvore, di quel mare e di quel vento e di quel profumo di mare e di pini in cui lei sfrecciava come un gabbiano, mentre dall’altra parte del golfo si levava – chissà, si chiedeva talvolta Luisa, se, aguzzando lo sguardo, lo si sarebbe potuto vedere, probabilmente no, ma… – quel fumo che era anche sua nonna e pure chi era diventato fumo per colpa di sua nonna. Dalle piccole finestre di via Tigor, rivolte verso la collina di San Vito, dove anni dopo il rogo avrebbe scagliato il Museo e il suo demiurgo nell’invertitore, non si vedeva il mare. Sua madre l’aveva scelto – diomio, non è che avesse grandi possibilità di scegliere – perché non si vedeva il mare che da quella sera sulla terrazza con Ester le faceva male guardare. Già, anche lei aveva finito per detestare il mare – per detestarlo ancora più di quanto lo detestasse quell’altro capace di amare solo il ferro e il fuoco, perché lei lo aveva amato più di ogni altra cosa, e si odia più di ogni altra cosa ciò che si è amato e che non si può più amare.
Quella sera sono entrata dal niente nella storia del mondo, pensava Luisa mettendo a posto le carte. Non immaginava, non voleva immaginarsi quella sera, per il pudore dei figli cui disturba pensare ai genitori come amanti e che passano oltre a questo irritante e in fondo poco credibile pensiero; la storia della cicogna, in certi casi, non è poi così stupida. La disturbava pure chiedersi se si erano amati; se si amavano, anche se certi sguardi che aveva colto per caso, come un gabbiano coglie un pesce che guizza sull’acqua, le facevano pensare di sì; tenero sguardo, quasi teneramente canzonatorio quello di lui, un sorriso appena abbozzato, neanche un sorriso, l’attimo prima di un sorriso, una leggerezza per eludere la passione, mentre lei ritraeva lo sguardo dai suoi occhi e fissava un punto lontano, dura, ma una durezza che cedeva, che a poco a poco si abbandonava, le labbra lievemente dischiuse, un bacio a fior di bocca, una dolcezza – severa, sì, ma dolcezza – altrimenti ignota a quel viso.
[…]
Ecco, sarebbe stata curiosa di sapere che cosa avevano potuto dirsi all’inizio, prima di rendersi conto, o senza ancora volere rendersene conto, di ciò che sarebbe successo, che stava già succedendo. Per fortuna esistono le frasi di circostanza, i convenevoli, le regole della buona educazione, quella lingua asettica e innocua in cui si traducono gli opachi imbarazzi del cuore, anche quando non si è traduttori di professione. Ma parlare, dire la parola che salva… Come potremmo cantare le canzoni di Sion in terra straniera? Lingue tagliate di esuli che hanno in comune solo ciò che loro manca, un proprio posto nel mondo, e che si riconoscono toccandosi nel silenzio e nel buio, come prigionieri in una cella, o nel respiro affannoso per il lungo errare. Dere’s no hidin’ place down dere, I’m burnim too. Come potremmo cantare le canzoni di Sion in terra straniera? Non c’è posto dove nascondersi, anch’io brucio. Eppure hanno, abbiamo saputo cantarle, pensava Luisa, go down Moses tell old Pharao to let my people go e il popolo se ne è andato per il mondo, spesso inospitale quanto la prigione.
Deep river, il fiume Giordano è largo e profondo, ancora un fiume da attraversare, sempre ancora un fiume da attraversare, la Terra promessa sempre dall’altra parte. Le stesse canzoni, canzoni di tribù perdute, dieci di Israele, innumerevoli d’Africa; non c’è posto dove nascondersi aldiqua o aldilà del fiume e del mare, sotto il sole feroce che espone la preda al cacciatore. Corri negro corri, anch’io brucio, traversata del deserto, il treno blindato corre a Treblinka, il fetore dei corpi ammucchiati e della stagnante nuvola dei loro respiri è già quell’odore acido che avvertiranno fra poco smettendo per sempre di sentirlo un attimo dopo. Il treno della Storia ha un alito cattivo, pure le SS ne sono nauseate, non è piacevole per nessuno, anche se dà soddisfazione vedere come gli ebrei puzzano. Dunque è vero quello che si è sempre detto, adesso che non possono più spandersi unguenti e altre porcherie d’Oriente si vede come sono sporchi, anche quando vengono spinti sotto quelle docce restano sporchi. L’alito non è più cattivo, è vero, perché non c’è più alito che esca dalla bocca ma l’odore di tutta quella massa ammucchiata è disgustoso, per fortuna le squadre sono all’opera e il forno, il fuoco che purifica ogni sudiciume, è subito in azione”.
[C. Magris, da Non luogo a procedere]