Foto Ansa
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Si è tornati a parlare sulla possibilità di far inserire il Palio nella lista Unesco dei beni immateriali patrimonio culturale dell’umanità. È noto, infatti, che l’organizzazione internazionale fondata nel 1946 per promuovere nel mondo azioni educative, scientifiche e culturali, nonché per organizzare programmi di conservazione del patrimonio storico e culturale, nel 2003 approvò anche la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”. Dopo la lista dei beni materiali (di cui Siena fa parte) si volle istituire anche quella dei cosiddetti beni immateriali, per tutelare e tramandare – leggiamo all’articolo 2 della Convenzione – «pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e i saperi che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale». Il testo della Convenzione prosegue dicendo che meriterà attenzione ogni «patrimonio culturale intangibile, trasmesso di generazione in generazione, costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi interessati in conformità al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e che fornisce loro un senso di identità e continuità, promovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana».

Che dire: non mancherebbe proprio nulla al Palio di Siena per entrare a far parte di un siffatto repertorio universale in cui si registrano autentiche testimonianze, riti e feste a forte valenza identitaria, tradizioni viventi che siano espressione di cultura tramandata lungo gli anni da una intera comunità.

I più attenti osservatori sanno bene che non esisterebbe l’evidenza, la “tangibilità” del Palio (la festa, i riti, la rappresentazione) senza l’imprendibilità del sentimento profondo che ne è l’anima, la ragion d’essere. Ovvero ciò che a Siena ha trasformato l’ispessito tempo di una storia e di una civiltà, in memoria collettiva, orgoglio, identità, senso di appartenenza. Un sentire giustappunto “immateriale”, ma visibile, che sa conservarsi e esplicitarsi da una generazione all’altra con la forza di un ricordo condiviso e confermato in ogni epoca.

A tale proposito Mario Luzi sosteneva che il sentimento del Palio proviene «dalle latebre della senesità» e che non è facile coglierlo per chi ne sia esterno, per chi si fermi soltanto all’evidenza (pur suggestiva, spettacolare, coinvolgente) della Festa senese. Certo, può essere comprensibile lo sconcerto di qualcuno. Forse appare inconsueto, nell’epoca della frammentazione e delle solitudini di massa, vedere un popolo che sulla pretestuosa e appassionante scena del gioco si divide per unirsi. Riaffermando così il proprio essere comunità in nome di una storia (di libertà, di lotte politiche, di splendori artistici). Perché questo vuole significare il Palio e tutti i riti che lo accompagnano. Ma – ed è qui il discrimine con le molte e variegate manifestazioni folcloristiche – non allestendo una recita ove gli attori fingono altri-da-sé. No, il Palio vive per quanto ciascuno è autenticamente se stesso. In un reportage del 1939, Tommaso Landolfì comprese perfettamente lo spirito dei Senesi: «Il Palio non è una farsa, non è una coreografia cui si può assistere in perfetta indifferenza, è molto, molto di più […] è Siena tutta con la sua civiltà continua, con l’immanenza delle sue alte passioni». E, quasi in contemporanea, ribadì il concetto Piero Bargellini: «Il Palio non fu e non è un gioco simile ad altri o protratti nei secoli o riesumati in tempi recenti. Il Palio significò la sopravvivenza d’un ideale e di un ordine, conculcato, ma non domato; soppresso, ma non estinto».

Ecco, pertanto, cosa distingue il Palio dalla mera rievocazione. Non è semplice evocazione del passato, ma è il presente costantemente dilatato alla coscienza della propria storia. Nel Palio sembra sì di fermare il tempo, di de-storificare provvisoriamente il presente, ma lo si fa per reinscrivere nuovamente il nostro oggi nel flusso della storia. Insomma il Palio, nel suo estremo significato, è una rinuncia a morire: ricorrendo, infatti, a questa tenace riappropriazione di memoria e di identità, si cerca così la garanzia per “esserci” anche da morti. E non sarà stato un caso se Eugenio Montale ebbe a definire poeticamente tutto questo come «il giorno dei viventi».

Tale è dunque il valore “immateriale” della Festa senese. Non si dimentichi, peraltro, che essa vive non solo nella eccezionalità di alcuni giorni all’anno, ma anche nella ordinaria quotidianità, attraverso aggregazioni di persone tutt’altro che improvvisate, cioè le contrade (piccole città dentro la città) che costituiscono un ulteriore elemento identitario e quasi un esempio – nel tempo delle difficili cittadinanze – su come si possa essere “differenti” e “uguali”.

Pertanto c’è di che argomentare con l’Unesco. Il Palio, proprio in virtù dello spirito che lo anima, così intenso e talvolta inspiegabile, e ancor di più per come quello spirito resista indelebile nel vissuto di una comunità, è “bene intangibile” (ma reale) che avrebbe pieno titolo per essere iscritto in una lista dove si intende fare memoria di quanto, nelle diversità delle culture e dei popoli, è “tesoro di umanità”. La Festa di Siena, con la sua stupenda allegoria del tempo e della storia, può giusto testimoniare come sia possibile essere diacronici e sincroni al tempo presente, appartenere con orgoglio ad una trascorsa civiltà dai forti connotati ed essere contemporanei. Il Palio, quindi, come un bene immateriale che trovi giustamente iscrizione in quella specie di “inventario delle percezioni del mondo” compilato dall’Unesco. Poiché – per dirla con George Berkeley, che dell’immaterialismo fu il padre – «l’essere delle cose consiste nel loro venir percepite». E il Palio di Siena non è “visibile” e comprensibile se non nella (im)percettibilità, nella immaterialità del suo spirito. E’, appunto, un bene immateriale.