penna-e-calamaioLa letteratura è conoscenza, viaggio, emozioni, scoperta di se stessi, degli altri e del mondo. Ne troveremo conferme anche in questa rubrica che, settimanalmente, proporrà frammenti d’autore. Un piccolo “manuale d’uso” per i nostri giorni comuni e, soprattutto, per i sentimenti che dentro quei giorni abitano.

Tra le parole ricorrenti di queste settimane il primo posto spetta a “moneta unica”. Naturalmente quella europea, per la quale nel nostro continente batte un cuore a forma di salvadanaio (la citazione è deandreiana).
L’altro giorno, proprio con una monetina da venti centesimi d’euro in mano, mi è tornato in mente lo zahir di Borges e l’omonimo racconto dello scrittore argentino che sosteneva, provocatoriamente, come la democrazia fosse un “abuso della statistica”. Il suo affascinante, visionario racconto farebbe venire l’orticaria a qualche economista nel sentirsi dire che «… nulla è meno materiale del denaro, giacché qualsiasi moneta… è, a rigore, un repertorio di futuri possibili. Il denaro è astratto, il denaro è futuro… una moneta simboleggia il libero arbitrio…».

«A Buenos Aires lo Zahir è una moneta comune, da venti centesimi; graffi di coltello o di temperino tagliano le lettere NT e il numero due; 1929 è la data incisa sul rovescio. (A Guzerat, alla fine del secolo XVIII, fu Zahir una tigre; in Giava, un cieco della moschea di Surakarta, che fu lapidato dai fedeli; in Persia, un astrolabio che Nadir Shah fece gettare in mare; nelle prigioni del Mahdi, intorno al 1892, una piccola bussola avvolta in un brandello di turbante, che Rudolf Cari von Slatin toccò; nella moschea di Cordova, secondo Zotenberg, una vena nel marmo di uno dei milleduecento pilastri; nel ghetto di Tetuàn, il fondo di un pozzo). Oggi è il tredici di novembre; il giorno sette di giugno, all’alba, lo Zahir giunse alle mie mani; non sono più quello che ero allora, ma ancora mi è dato ricordare, e forse narrare, l’accaduto. Ancora, seppure parzialmente, sono Borges.
[…]
Nella figura che si chiama oximoron, si applica a una parola un epiteto che sembra contraddirla; cosi gli gnostici parlarono di luce oscura; gli alchimisti, di un sole nero. Uscire dalla mia ultima visita a Teodelina Villar ed entrare in una mescita, era una specie di oximoron; la sua grossolanità e facilità mi tentarono. (La circostanza che vi si giocasse a carte, aumentava il contrasto). Chiesi un’aranciata; nel resto mi dettero lo Zahir; lo guardai un istante; uscii, forse con un principio di febbre. Pensai che non esiste moneta che non sia simbolo delle monete che senza fine risplendono nella storia e nella favola. Pensai all’obolo di Caronte; all’obolo che chiese Belisario; ai trenta denari di Giuda; alle dracme della cortigiana Taide; all’antica moneta che offri uno dei dormienti di Efeso; alle lucenti monete del mago delle Mille e una notte, che poi si rivelarono cerchi di carta; al denaro inesauribile di Isaac Laquedem; alle sessantamila monete d’argento, una per ciascun verso di un’epopea, che Firdusi restituì a un re perché non erano d’oro; all’oncia d’oro che Ahab fece inchiodare all’albero della nave; al fiorino irreversibile di Leopold Bloom; al luigi la cui effige denunciò, presso Varennes, il fuggitivo Luigi XVI. Come in un sogno, il pensiero che ogni moneta permette tali illustri parentele mi parve di grande, benché inesplicabile, importanza. Percorsi, con crescente rapidità, le vie e le piazze deserte. La stanchezza m’arrestò a un cantone. Vidi una paziente inferriata; dietro, vidi le piastrelle nere e bianche dell’atrio della Concezione. Avevo errato in un cerchio; mi trovavo a un isolato dalla mescita dove m’avevano dato lo Zahir…. Il giorno seguente decisi ch’ero stato ebbro. Decisi altresì di liberarmi della moneta che tanto m’inquietava. La guardai: nulla aveva di particolare, salvo qualche graffio. Seppellirla nel giardino o nasconderla in un angolo della biblioteca sarebbe stata la cosa migliore, ma io volevo allontanarmi dalla sua orbita. Preferii disfarmene. Non andai al Pilar, quella mattina, né al cimitero; andai, con la metropolitana, a piazza della Costituzione e di lì a San Giovanni e Boedo. Scesi, impensatamente, in via Urquiza; mi diressi ad ovest e a sud; girai, con disordine studiato, alquanti angoli e in una via che mi parve uguale a tutte le altre, entrai in una bottega qualunque, chiesi un bicchierino e pagai con lo Zahir. Tenni gli occhi socchiusi, dietro gli occhiali affumicati; riuscii a non vedere i numeri delle case né il nome della strada. Quella notte, presi una pastiglia di “veronal” e dormii tranquillo.»»

[da “Lo Zahir”, in L’Aleph, di J.L. Borges]