aimeQuando la memoria va a raccogliere rami secchi, recita un proverbio africano, ritorna con il fascio di legna che preferisce. Forse si spiega anche così, con il passato che abbiamo scelto di lasciarci alle spalle, questa Italia che non sa più essere terra di accoglienza.

Eppure lo sapevamo anche noi, l’odore delle stive, l’amaro del partire: le prime parole di una delle più struggenti canzoni di Gianmaria Testa. E dunque, sarà anche perché siamo riusciti a rimuovere la nostra storia di grande e dolorosa emigrazione.

In “Senza sponda” (Utet) Marco Aime si interroga su questo e su molto altro: un piccolo libro – una volta si sarebbe detto un pamphlet – per interrogativi enormi che prima ancora che il destino dei migranti chiama in causa il nostro sguardo sui migranti: meglio ancora, il nostro sguardo che si distoglie, si sottrae.

Sahel, ho appreso, significa sponda. Ed è da quella sponda che si muovono vite attratte da uno spiraglio di speranza: è sempre successo. Ma al di là del mare ora non c’è un’altra sponda. C’è semmai un’indifferenza sempre più globalizzata, c’è la finzione che trasforma la nascita in nazione, c’è l’uso triste e miserabile di un “noi” contrapposto agli “altri”. E ci sono naturalmente tante paure che è bene indagare e comprendere.

Tracciamo confini e ci chiudiamo dentro. A volte non capiamo più nemmeno da che parte sono davvero le sbarre. Allora fa bene leggere parole come quelle di Aime, ci si riconosca o meno in esse:

«Chi viaggia in mare sa che non ci sono linee nell’acqua, che ogni onda porta con sé un confine da dissolvere, che nessun limite merita più rispetto di una vita umana».