Si è da poco concluso l’anno che ha ricordato (e celebrato con molteplici iniziative) il centenario della nascita di Mario Luzi e già un’altra data invita a riflettere su questa figura tra le più significative del nostro Novecento letterario. Il 28 febbraio sono, infatti, dieci anni dalla morte del poeta, avvenuta improvvisamente nella sua casa fiorentina. Giusto qualche giorno prima egli aveva reso definitivo un testo poetico che – forse un presentimento? – parlava di un termine, di una vetta che si approssimava e di cui «ne davano un chiaro avvertimento / i magri rimasugli / di una tappa pellegrina». «Lì – scriveva il poeta – avrebbe la sua impresa / avuto il luminoso assolvimento / da se stessa nella trasparente spera / o nasceva una nuova impossibile scalata… / Questo temeva, questo desiderava».
Il poeta del paesaggio Ecco, allora, come quei versi andarono a sigillare non solo la fine di una vita, ma, ancor di più, la conclusione di un percorso poetico instancabilmente contrassegnato dal dubbio, dalla domanda, dall’invocazione, dalle ombre e dalla luce, dalla ricerca dell’essenza eterna delle cose. Quello stesso sublime tormento che Luzi aveva trasferito nel “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”, laddove in una sorta di cammino penitenziale ed iniziatico, si cercava di ricomporre, in parole nuove, tutti i contrari dell’esperienza umana: vita-morte, eternità-finitezza, sogno-realtà, la concretezza e l’insondabile, l’esistenza e l’arte. La poesia di Mario Luzi, infatti, ha di continuo indagato questi opposti, intendendo così – lo scrive lui stesso nella premessa al “Libro di Ipazia” – «attivare dei punti di assillo e di sofferenza presenti anche se latenti nel tempo e nell’umano. Come fontane che riprendessero a versare acqua, o piaghe a sanguinare». E tale tormentata operazione (ne abbiamo parlato ripetutamente, ma non certo per farne “turismo letterario”) aveva trovato “luogo”, simbolo, metafora in terra toscana, poiché – lo annotò anche Lorenzo Mondo all’indomani della sua morte – Luzi «va disegnando così un universo purgatoriale di ombre ansiose in paesaggi aspri e desolati (la sua terra toscana, pur prodiga di dolcezze) dove agisce la lezione dell’onnipresente Dante e di Eliot». Del resto Luzi – e qui fu Andrea Zanzotto ad affermarlo – è da ritenersi «grandissimo poeta del paesaggio e del dramma che la natura porta con sé e dell’uomo che vive in questa dimensione». Così come – secondo Alberto Asor Rosa – la poesia luziana esprime una specie di «universale panpsichismo» che si manifesta proprio attraverso «l’energia affettuosa e in ultima analisi tutta mondana con cui Luzi ha cantato fino all’ultimo terre e paesaggi della sua Toscana».
L’orfananza intellettuale Ma oggi non è di questo che vorremmo parlare, quanto, piuttosto, di un senso di orfananza intellettuale, etica e civile che Romano Luperini bene colse, scrivendo: «Prima di Luzi sono venuti meno Sereni, Fortini, Caproni. Una intera generazione di poeti sta scomparendo. Nessuno dei poeti che oggi hanno fra i cinquanta e i sessanta ha l’autorità che loro avevano a questa età; nessuno sembra capace di testimoniare la verità con l’intensità che essi hanno mostrato». Sì, l’assenza di Mario Luzi (di quella sua voce flebile, elegantemente misurata, parsimoniosa ma efficace nell’andare all’osso delle cose) contribuisce a darci ulteriore spaesamento dentro il “magma” (per usare una sua espressione) dei nostri giorni, nell’emergenza di una crisi di civiltà che pare non avere idee e uomini per essere fronteggiata. Eppure il poeta Mario Luzi – lo disse ancora Asor Rosa – «non potrebbe in nessun modo essere incasellato nelle categorie storiche della intellettualità organica». Ma «proprio perciò a molti, anche al di fuori della cerchia dei lettori di professione e dei politici, era sembrata stupenda e ammirevole quella sua sintesi fra una purissima, persino aristocratica voce di poesia e il coraggio etico-politico delle opinioni. E alla fine era non solo stimato e apprezzato ma amato: con quel consenso concorde, che riconosce la grandezza umana quando c’è».
L’amore profondo per la nazione Italia Insistiamo, perciò, nel dire che non ci manca solo il cantore della “maestà del mondo”, ma anche il garbato quanto fermo giudice dei fatti e della storia. A sera, al di sopra del cicaleccio di telegiornali e talk show, vorremmo tanto riascoltare le parole che Luzi ebbe a pronunciare il 7 gennaio 1997 a Reggio Emilia per il bicentenario del Tricolore (cento anni prima era toccato a Giosue Carducci): “Per la nostra nazione sono oggi necessari due sentimenti, come l’amore e la speranza, che l’hanno sorretta nelle grandi prove a cui è stata chiamata, dalle guerre del Risorgimento alla lotta della Resistenza alle difficili vicissitudini attuali. Bisogna fondare la nostra scommessa sulla mai soddisfatta aspettativa di un paese giusto, attraverso un invito toccante a riesaminare il nostro stato reale nel nome della solidarietà, della volontà comune e della speranza”. E – ricordava Luzi – ad animare quella multiforme compagine che è la nostra nazione «è sempre stato necessario un sogno, l’antico sogno di un paese da costruire, di un’Italia perennemente da fare, illimitatamente futura. Inventata dalla appassionata genialità dei poeti e dei filosofi e tramutata in disegno politico condiviso e contrastato dagli uomini di governo». Folgorante anche il pensiero che «l’Italia non è mai stata un paese che riposasse sulle proprie ragioni acquisite, ma è stata sempre vera e indubitabile nella tensione verso un sé da raggiungere; è stata una perpetua utopia oppure non è stata niente». Anche nel discorso preparato per la nomina a senatore a vita (discorso che non fece in tempo a pronunciare) Luzi aveva ripreso questi concetti parlando di un’Italia «in fieri come le sue cattedrali». La nazione – avrebbe detto il senatore a vita – «si unisce e ascende a se stessa, la sanzione di quella ascesa è lo Stato, per il quale penso si debbano avere, data la nostra storia, speciali riguardi». Per poi concludere che “revolution e amelioration” possono equamente curare lo Stato, «ma tradirlo e spregiarlo non dovrebbe essere consentito a nessuno».
Un ricordo che consola Dieci anni fa moriva dunque un grande poeta a cui non era estranea passione e coscienza civile. Si è voluto, nella ricorrenza, ricordarlo soprattutto per questa sua dimensione. Forse per consolarci nel confuso frangente che ci troviamo a vivere; per reagire alle beghe, alla superficialità, all’impotenza di un mondo che sembra volersi negare il futuro; per recuperarci ad una idealità e impegno politico, perché – ammoniva il poeta – «le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza».