Mentre a Roma, nel Partito Democratico e intorno ad esso, si discute di scissioni e fondazioni di nuovi partiti, mescolando nel pentolone alchemico basi di Tsipras, pezzi di Podemos e spruzzate di socialdemocrazia mediterranea, alla ricerca della formula magica di una nuova Sinistra Italiana, nella base del partito ne sta avvenendo una silenziosa ma all’apparenza inarrestabile di scissione.
Una scissione che rischia (od “offre” a seconda dei punti di vista) di mutare alle fondamenta la natura e la composizione stessa del PD.
A dire il vero più che di una scissione si tratta di un esodo: la marcia verso una nuova terra di nessuno da parte di coloro che lasciano o minacciano di lasciare la tessera del PD, e che giurano che con il PD non vogliono avere più nulla a che fare.
Sfiducia nella politica, nei partiti, disinteresse alla partecipazione: tutte queste cose messe insieme certo. Una marcia che parte da lontano, vero anche questo. E che dipende anche dal fatto che ormai lo status del tesserato non si capisce più quali diritti attribuisca rispetto ai semplici elettori. Ineccepibile.
Ma dall’ultimo Congresso, e soprattutto dalla nascita del Governo Renzi, e ancor più dal Jobs act, il tutto ha assunto un colore diverso, più nitido e soprattutto a tinta unita.
Nel PD del decisionismo e della comunicazione sfrenata; nel PD del leader e della messa al bando dei “mezzi termini”, c’è una larga fetta di iscritti che se ne va, o minaccia con fermezza di andarsene, spesso anche iscritti storici, perché non si riconosce nel Segretario, e a volte per una dichiarata incompatibilità etica con le decisioni assunte dal partito e dal Governo.
Pur non entrando nel merito del dissenso e prescindendo da giudizi di valore, è un fenomeno oggettivamente nuovo: dalle nostre parti ad esempio il dissenso verso i vertici portava dentro la sezione a bestemmiarlo in faccia al malcapitato dirigente provinciale di turno. Oggi sembra invece spingere mestamente fuori dal Circolo. Certo con iniziali rabbia e indignazione, ma che finiscono poi per risolversi in rassegnazione.
Insomma Renzi, indisponibile per natura e per metodo alla sintesi e a curarsi di rappresentare anche il dissenso, tira dritto da una parte come una locomotiva disinteressata a quali vagoni le rimangano attaccati; e chi non si riconosce in lui, privo di rappresentanza e indisponibile alla convivenza, tira dritto dall’altra, con l’impeto esemplare, ma anche con lo stesso fatalismo crepuscolare, della locomotiva di gucciniana memoria.
Ma se alla base “chi sta” col Segretario resta ed anzi fa magari nuovi proseliti, e chi “è contro” se ne va, il risultato rischia di essere quello di un PD con tesserati a pensiero unico, con una base tutta schiacciata sull’attuale maggioranza, e soprattutto portatrice di valori, idee, progetti che rispecchiano solo un pezzo, ben omogeneo e motivato, ma pur sempre solo un pezzo del sentimento e della storia del centrosinistra italiano.
Si dirà che tanto la tessera del PD nell’epoca renziana è utile come quella del videonoleggio nell’epoca di internet e della tv satellitare.
Beh, però intanto non è vero del tutto, vedi ad esempio la necessità di raccogliere firme tra i tesserati per candidarsi alle primarie (e a volte, come nel caso toscano, una valanga di firme).
Quelle primarie poi che fino a poco tempo fa sembrava dovessero svolgersi anche per scegliere gli addetti ai bracieri alle Feste de l’Unità, e che adesso cominciano invece ad andare sempre meno di moda (leggi).
E senza primarie, o magari chissà in futuro riservate ai soli iscritti, e con il controllo totale della base dei tesserati, si fa scacco matto al PD, e chi giurava di non portarsi via il pallone potrà però portarsi via l’intera scacchiera.
Un problema che un partito vero deve affrontare, qualunque maggioranza e qualunque Segretario ci fossero in questo momento, se non vuol diventare l’ennesimo partito personale la cui vita politica coincida con quella del capo.
Insomma, dopo Renzi ci sarà il PD?