Deve essersi stupito anche Simon Le Bon. Sanremo, quarant’anni fa, non era mica quell’affare di stato che è diventato adesso, anche se ci aveva già messo le mani Pippo Baudo, e bastava poco per intuire la kermesse che sarebbe diventata.
All’epoca, il Festival era ancora una cosettina di retrovia; che per musica italiana si intendevano soprattutto i cantautori, Dalla, Venditti, Guccini, e quelli a Sanremo non ci mettevano piede. Lasciavano il proscenio ad Al Bano e a Toto Cutugno, e quando un tal Vasco Rossi si azzardava a proporre un manifesto generazionale come “Vita Spericolata” lo sbattevano al penultimo posto, dopo Gianni Nazzaro.
Io, a quel tempo, assomigliavo al Buffalo Bill di De Gregori, quello che giocava a ramino e fischiava alle donne. Credulone e romantico, come han da essere tutti i ragazzi di diciotto anni. Abbastanza semplice nei gusti, leggevo gli Oscar Mondadori e il Guerin Sportivo; Gianni Brera ma anche Hermann Hesse, Buzzati e Garcia Marquez. Lavoravo già in fabbrica e le massime aspirazioni risiedevano nello sguardo benevolo di qualche ragazza di Sinalunga o di Lucignano, alla discoteca Jump, e un quarto di finale di Coppa Italia (non oltre) della Sampdoria… Tra la vita e la morte, insomma, non avrei scelto l’America. Al massimo, il Circolo Acli del paesello.
E non ricordo nemmeno perché mi piacessero così tanto i Duran Duran. Potrebbe entrarci Freud, e tutta quella roba tra l’Io, l’Es e il Super Io… In fondo, avevo gusti musicali abbastanza opposti; ero partito dai Pink Floyd, spasimavo per Bruce Springsteen, mi piacevano i Police con qualche immancabile sbandate nell’hard rock, se non addirittura nell’heavy metal.
Eppure, quei quattro fighettini ossigenati furono una botta improvvisa di energia, come furono gli anni’80 per la mia generazione. Loro, ma anche gli Spandau Ballet, i Talk Talk, i Simple Minds e tutto il resto. Io penso, a volte, di essere rimasto lì: e rifletto (come quel famoso scrittore) che tutto quello che c’è dentro di me è quel mondo, e niente altro. Quello che è venuto dopo è solo volume in più.
Ieri sera, davanti alla tv, la nostalgia per il tempo che è passato era lì, che sbirciava dallo stipite della porta; sembrava di vedere Platini, quando lo invitarono a una partita di beneficenza dopo vent’anni che aveva smesso. E aveva messo un bel pò di panza, e quasi non si riconosceva.
Ma credo, alla fine, che mi sia andata bene così. Ho pensato a quelli che sono invecchiati male, o comunque peggio di me… A quelli che non si entusiasmano più se la Sampdoria vince uno a zero con il Cosenza.
Ho pensato a Giuliana, che era una mia amica. Aveva 54 anni, e se n’é andata l’altro ieri.
Così, quando è partita la rullata di batteria (inconfondibile) che introduce Wild Boys, beh… Confesso che mi sono emozionato. Anche se Simon Le Bon sembrava Platini, John Taylor uno dei Pooh e Nick Rhodes la povera Assuntina (sms di Cochi, alle 22,14).
A me, sono bastati e avanzati.
Mi sono guardato piangere in uno specchio di neve, mi sono visto che ridevo.
Come le anime salve di Fabrizio De Andrè.
Wild boys, never lose it.
Wild boys, always shine.
Così….