Il tempo delle mele

Il 18 dicembre 1980 uscì, nelle sale cinematografiche, “Il tempo delle mele”.

Me l’ha fatto notare stamattina una mia ex compagna di scuola; che si avvicina ai sessanta, ma (come quasi tutte le donne che hanno la mia età) è molto più bella adesso di quando ne aveva quindici. Un fascino diverso e, ovviamente, molto più ricco e definito, nonostante anche ai nostri tempi si favoleggiasse sulle teenagers e sulla cosiddetta “bellezza del diavolo”. Dove anche le più bruttine mettevano sù quella puntina di seno (in qualche caso, più di una puntina) che scatenava ormoni e fantasie.

“Il tempo delle mele” uscì, in Italia, qualche mese dopo, che era già il 1981. E rimase in programmazione per settimane, perché il concetto di cinema era parecchio più dilatato, e i film non duravano un weekend, due al massimo, per poi entrare nel circuito di Netflix o AmazonPrime. All’epoca, invece, avevamo le prime, le seconde e persino le terze visioni… Per non parlare dei cinemini di paese, come il mio: dove “Lo chiamavano Trinità” (1970) arrivò nel ’74, ma fu un successo lo stesso.

“Il tempo delle mele” appartiene, semmai, a quei cult-movie che entrano nella storia, molto al di là loro effettivo valore artistico. Una specie di spirito del tempo (lo “zeitgeist” dei filosofi tedeschi), che fu specchio di anni fecondi e rivoluzionari, specie per i giovani: anni di film epocali, come “La febbre del sabato sera” o “I guerrieri della notte”, e di dischi memorabili, come “The wall”, dei Pink Floyd.

“Il tempo delle mele”, in quel senso, era un filmettino abbastanza scialbo e melenso. Dove c’erano due genitori separati (una rarità, all’epoca) una simpatica nonnina che guidava la “Due Cavalli” e i primi turbamenti adolescenziali di una quindicenne.

Solo che la quindicenne in questione si chiamava Sophie Marceau. Che, come molte sue coetanee, è uno splendore anche adesso ma allora era proprio il massimo che si potesse immaginare: con il suo caschetto bruno, il seno appena accennato e un visino acqua e sapone da pura vertigine.

Soprattutto, c’era la colonna sonora. Che si chiamava “Reality” ed era, anche quella, una canzoncina da niente… Ma fatela ascoltare adesso a qualcuno della mia età, anche solo l’inizio, e osservatene la reazione.

reality

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Sophie Marceau fu, in quel senso, il nostro primissimo turbamento emotivo. Incarnò alla perfezione quella fase decisiva che ti trasporta da Goldrake, Happy Days e la Tv dei ragazzi al piano di sopra; la consapevolezza che stai mettendo piede in un pianeta finora sconosciuto, dove ballare un lento ai festini di terza media ti procura un piacere e un brivido mai provati finora. Superiore a quello di trovare la figurina di Adelio Moro, con la quale andavi a completare la pagina dell’Ascoli.

La nostra vita, insomma, cominciava una fase nuova: la Vespa 50, e non più la bicicletta. La domenica pomeriggio in discoteca anziché al catechismo. I primi balli lenti con le ragazze, che ci sembravano lontane anniluce, e l’inesausto impegno quotidiano per assomigliare, almeno un pochino, a Cabrini, a Miguel Bosè e a tutti quei bonazzi che furoreggiavano nei loro diari di scuola: come l’ormai dimenticatissimo Sterling Saint Jacques, che era un marcantonio nero dagli occhi azzurri (poi scoprimmo che erano banalissime lenti a contatto).

Erano, quelli, i primi anni Ottanta. Ed era, alle porte, il cosiddetto “riflusso”: il mondo stava diventando qualcos’altro, e noi stavamo dentro alla centrifuga del cosiddetto “edonismo”… Presto sarebbe arrivato l’urlo di Tardelli, poi i Duran Duran, gli Spandau Ballet e tutto il resto.

L’innocentissimo “Tempo delle mele”, di quella lontana stagione, ne fu una specie di simbolico apripista. Della nostra adolescenza spettinata e di innocenti bambini che stavano diventando donne e uomini.

E c’era una folla mai vista al Cinema Moderno di Sinalunga, quella domenica pomeriggio: dove adesso il cinema non esiste più da tempo e al suo posto ci hanno impiantato la caserma dei Carabinieri.

E ricordo come quel film fu entusiasmante e ci piacque davvero tanto. Ma ricordo anche, all’uscita, di aver subito acceso la radiolina a transistor, per ascoltare i risultati della serie B; per scoprire, delusissimo, che la Sampdoria non era andata al di là di un modesto due a due a San Benedetto del Tronto.

E allora – pensai – al diavolo Sophie Marceau, il suo caschetto bruno, le sue puntine di seno e il suo bel fidanzatino che gli appoggia le cuffie sulle orecchie. Al diavolo “Reality”, i lenti dell’adolescenza, i primi baci sulla bocca e tutto il resto, se poi bastava un becero di centravanti della Sambenedettese, che ci segnava una doppietta e finiva per rovinare tutto.

Sono passati più di quarant’anni. E ancora ci sorrido.