Qualche testimone ricorda di avere sentito il canto dell’allodola nell’alzarsi in volo, segnale che tutto sembrava tranquillo, anche se nella notte “i cavalli avevano rifiutato il sonno per guardarsi attorno, le orecchie dritte, sospettose, e forse presaghe, puntate all’orizzonte”. Da quella parte, infatti, con il favore delle tenebre migliaia di soldati russi, nascosti tra i girasoli, si erano asserragliati pronti a sferrare l’attacco a sorpresa al reparto italiano. Ma gli uomini del Savoia Cavalleria non potevano saperlo.

Poi, alle tre e trenta, una pattuglia esce in avanscoperta; una timida luce comincia a disegnare la sagoma della collina che scende dall’altra parte verso la vallata dell’immenso e placido Don. Qualcosa luccica in mezzo ai girasoli. Non promette niente di buono, è un elmetto con una stella rossa in fronte. Subito si scatena l’inferno.

Il Savoia è accerchiato ma disperatamente reagisce; il comandante, colonnello Alessandro Bettoni Cazzago, celebre campione sportivo, appassionato maggiormente di cavalli che di cose di guerra, tenta il tutto per tutto. Caricare bisogna. “Attacchi il fianco sinistro della linea nemica”, ordina al suo capitano.

“Secondo squadrone a cavallo!”.

“A frotte, avanti: Trottooo!”.

“Galoppoooo!”.

Gli ordini del capitano risuonano nitidi, anche in mezzo al crepitare delle armi e al galoppare compatto dei cavalli. Poi, l’ordine “Sciabl-mannnn!” e infine l’urlo di guerra, “Caricaaat!”, che risuona nella vallata come un boato, gettando nel terrore il nemico colto di sorpresa, aggredito sul fianco da un fiume in piena di cavalli furiosi e uomini stravolti.

Ebbe inizio così quella che, tradizionalmente, è passata alla storia come l’ultima carica di cavalleria della storia, compiuta nella steppa russa il 24 agosto 1942, ottanta anni fa. La battaglia venne battezzata con il nome di un paese vicino: Isbuscenskij.

Oggi, il reggimento Savoia Cavalleria, uno dei reparti più operativi del nostro Esercito, dal 1995 di stanza a Grosseto, ne commemora il ricordo.

Dopo quel primo micidiale attacco, seguì quello del 4° squadrone appiedato, per impegnare il nemico su due fronti; e ancora il ritorno di carica del 2° che seminò il panico e, infine, al centro, la carica del 3° squadrone che risolse lo scontro. Una battaglia da manuale, come quelle combattute nell’antichità. Con le sciabole che si rivelarono ancora armi micidiali.

Una vicenda che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e che, pur marginale nel contesto della disastrosa campagna di Russia (1941-43) voluta dal fascismo per essere a fianco dell’alleato nazista, assunse da subito il tono della leggenda. Subito la copertina della “Domenica del Corriere”, poi i cinegiornali dell’Istituto Luce e, a guerra finita, anche una pellicola di un certo successo, “Carica eroica” (1952) con Franco Fabrizi e un giovanissimo Domenico Modugno.

Mario Rigoni Stern scrisse di “un’azione da manuale puntualmente eseguita come una manovra in piazza d’armi”, mentre Indro Montanelli la definì un episodio memorabile “nello stesso tempo per la sua impronta eroica e per la sua irrimediabile arcaicità”. Più sprezzante il giudizio di Giorgio Bocca che parlò di “arcaica carneficina”. Senza ricordare, tuttavia, che al termine di quella giornata, tra gli italiani vi furono trentatré morti e cinquantatré feriti, mentre la conta dei nemici morti arrivò a centocinquanta o forse duecentocinquanta morti, mentre trecento o forse cinquecento i prigionieri. Centocinquanta i cavalli rimasti sul terreno. Tra quelli che sopravvissero anche il maremmano Albino, che diventerà lui stesso leggenda per la sua incredibile storia successiva. (LEGGI ANCHE Steppa bianca. Memorie di Albino cavallo da guerra)

“Quello che nel 1942 potrebbe sembrare leggenda si è verificato in un alone di bellezza”, scrisse qualche giorno dopo in una lettera il colonnello Bettoni Cazzago al suo vecchio comandante, Raffaele Cadorna. Entrambi, con molti altri soldati e ufficiali che avevano preso parte a quella giornata, una volta in Italia si ritrovarono a combattere per la Liberazione dell’Italia.

La storia, però, come scrisse Alberto Arbasino a proposito della definizione di Patria come memoria condivisa, sembra averli emarginati. E con loro pare aver dimenticato anche il sacrificio di tanti che, in quella campagna, pagarono con la vita per responsabilità altrui.