a dx il prof. Federico Lenzerini, docente di Diritto internazionale

SIENA – Non c’è azione diplomatica che tenga contro i missili russi. Tutte le iniziative non sembrano far desistere Vladimir Putin. D’altro canto, è anche vero che l’Occidente sembra temere le conseguenze di un intervento diretto in Ucraina e per il momento non va oltre le sanzioni. Un confine sottile analizzato da Federico Lenzerini, docente di Diritto internazionale all’università di Siena.

Che tipo di guerra è?
“E’ una guerra di aggressione. Giuridicamente non trova alcuna giustificazione, perché è contraria a tutti i principii di diritto internazionale. Non regge neanche il concetto di legittima difesa, perché contempla un’aggressione subita. Tutto questo presuppone una responsabilità internazionale da parte della Russia”.

La diplomazia internazionale come si sta comportando?
“L’impressione è che a tirare le fila sia il presidente Putin. Da un lato continua l’azione sul campo, dall’altra dà disponibilità a sedersi al tavolo. E’ evidente che una risoluzione diplomatica comporti anche delle concessioni da parte sua. Con una vittoria militare potrebbe anche farne a meno. Però ha bisogno di tempo, quindi si muove su due fronti”.

Per l’Ucraina l’art. 5 del Patto Atlantico non si può applicare. E’ così vincolante questo trattato?
“Sulla carta sì, perché l’Ucraina non fa parte della Nato. In linea di principio però la legittima difesa potrebbe essere applicata sulla base dell’art.51 della carta dell’Onu, che prevede anche la legittima difesa collettiva. Quindi, può agire in legittima difesa non solo lo stato che ha subito l’aggressione, ma anche altri paesi in difesa di quest’ultimo”.

Nel 1999 la Nato intervenne in Kosovo, un stato non interno all’Alleanza. Come fu possibile?
“Quello fu qualificato come intervento umanitario, perché vi erano violazioni sistematiche dei diritti umani. La questione è controversa. Alcuni paesi, soprattutto occidentali, sostengono che in particolari casi l’intervento militare è giustificato per mettere fine alle violazioni. Di fatto però è una regola che non trova riscontro nel diritto internazionale e che vede molti stati contrari. Quindi, sula base dei principi giuridici, anche quell’intervento fu illecito”.

L’Occidente in questo scenario cosa può fare?
“Le letture sono molteplici. Lo stato attuale ci dice che si persegue la strada delle sanzioni. Purtroppo, e noi all’università di Siena lo abbiamo toccato con mano con alcuni studenti russi, non sempre colpiscono i giusti bersagli. C’è poi la scelta militare, con tutto quello che ne consegue. Non intervenire da una parte è un segno di debolezza, ma di fronte alla Russia è opportuno fare anche delle considerazioni per evitare che un’eventuale azione sia irreversibile”.

L’invio delle armi è una soluzione intermedia ‘per pulirsi la coscienza’?
“A mio avviso sì. E’ un modo per dimostrare al mondo e a sé stessi che non siamo rimasti inermi”.

La ‘No fly zone’ è un altro passo senza ritorno?
“Sarebbe un passo molto impegnativo, che porterebbe le relazioni tra la Russia e le potenze occidentali in un piano ancora più preoccupante rispetto a quello attuale”.

Tutti questi cavilli giuridici sono dita dietro le quali nascondersi per non intervenire?
“Le norme contenute nel diritto internazionale spesso si rivelano inefficaci in queste situazioni. Purtroppo il diritto internazionale è ancora basato sui rapporti di forza. Io, in qualità di docente di questa materia, tutti i giorni cerco di convincere i miei studenti della sua utilità. Non posso dire che in generale non lo sia. Però, ora mostra tutte le sue debolezze. Tuttavia, non è che le norme contenute giustifichino il non intervento. Anzi, l’aggressione della Russia potrebbe comportarlo. Chiaramente non si può pensare che la decisione sia presa all’interno del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Comunque, stare lì e vedere cosa accade, è una sconfitta per la Comunità internazionale”.

Dall’ateneo come viene seguito quello che sta accadendo in Ucraina?
“E’ una situazione che ci tocca da vicino. Abbiamo tanti studenti che chiedono il nostro aiuto per continuare a studiare. Lo abbiamo sperimentato con l’Afghanistan e ora con l’Ucraina. Nel primo caso, per alcuni di loro che avevano collaborato con gli Stati Uniti, abbiamo avuto bisogno di un visto di studio per evitare la vendetta dei talebani. Le richieste sono molte e non è facile farvi fronte, ma siamo impegnati a garantire loro un futuro. E non solo per quanto riguarda l’istruzione”.