di Francesco Pezzo*

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(foto di Valerio Volpi)

Partiranno domenica 16 novembre le due ricercatrici senesi Silvia Olmastroni e Nicoletta Ademollo per prendere parte alla trentesima spedizione italiana in Antartide. Destinazione Christchurch (Nuova Zelanda) dopo due brevi scali a Singapore e Sidney. Da lì inizierà il loro viaggio verso la base antartica italiana “Mario Zucchelli” a bordo di un Hercules C-130, lo storico quadrimotore ad elica che ancora oggi rappresenta il mezzo più affidabile per questi lunghi voli a bassa quota tra mare e nuvole. La partenza, tuttavia, potrà avvenire solo dopo che le condizioni meteo in Antartide lo permetteranno, che vuol dire vestirsi ogni mattina all’alba con calzamaglia termica, tuta polare e scarponi da neve e aspettare il via libero al decollo della torre di controllo dell’aeroporto militare.

Un “ok” che può arrivare immediatamente o dopo giorni in una estenuante attesa fatta di rituali e pazienza. Ma non è ancora finita perché le 14 ore di volo sull’Oceano Meridionale non consentono al C-130 di tornare indietro se, in vista dell’aeroporto di arrivo, le condizioni meteo non sono idonee all’atterraggio, e così dopo 6 ore di volo il pilota chiederà di nuovo l’ok alla base antartica e se nel frattempo il tempo fosse cambiato (come spesso accade) non resta altro che tornare indietro in Nuova Zelanda e riprovare il giorno successivo. Se il tempo sarà invece clemente le ricercatrici italiane atterreranno sul mare ghiacciato della Tethys Bay vicino alla base italiana, dove lo spessore dei ghiacci di quasi 3 metri consente l’allestimento di una pista di atterraggio; ma solo fino a dicembre, poi con il progredire dell’estate antartica, il ghiaccio si assottiglierà e a gennaio solo la Nave Italica, un mercantile dalla chiglia rinforzata di fabbricazione russa che da quasi 30 anni solca ogni estate il mare di Ross, potrà raggiungere la base.

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Silvia Olmastroni (Foto Valerio Volpi)

Qui si concluderà il viaggio di quasi tutti i ricercatori e i tecnici della spedizione, ma non quello di Silvia e Nicoletta; loro, infatti, si occupano di pinguini che come tutti gli uccelli marini nidificano in colonie lontano dall’uomo e dalle sue attività. Giusto il tempo di riordinare i materiali, preparare i viveri e l’equipaggiamento e poi ancora un volo, questa volta in elicottero, passando sopra la lingua del ghiacciaio Campbell con i suoi crepacci senza fondo, doppiando le scogliere di Capo Washington e poi costeggiando il vulcano Melbourne (un vero e proprio Vesuvio polare di 2730 mt) fino al campo remoto di Edmonson Point a 70 Km dalla base; è lì che saranno lasciate dall’elicottero. Qui si trova una vasta area di scurissimo terreno vulcanico scoperto dai ghiacci anche in inverno, un panorama lunare attraversato da un torrente in cui fioccano alghe e muschi, e che all’inizio dell’estate si popola di migliaia di piccoli pinguini di Adelia e di Stercorari, i feroci gabbiani predatori resi popolari dal film “Happy feet”.

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È proprio qui, infatti, che, per merito del professor Silvano Focardi, ebbe inizio nel 1994 uno studio sulla biologia del pinguino di Adelia condotto dai ricercatori dell’Università di Siena. Una presenza costante per molti anni, quella senese, in questo angolo di mondo che ha fatto sì che la piccola ansa di mare su cui si affaccia il campo venisse ufficialmente ribattezzata su tutte le carte geografiche “Siena Bay” in onore proprio dei ricercatori senesi. Ma dentro le grandi storie, come in grandi matrioske, si nascondono tante altre piccole storie che quasi mai trovano eco nell’informazione.

Mentre la National Science Foundation americana prosegue la sua altisonante missione di “avanzare il progresso della scienza” investendo milioni di dollari nella ricerca naturalistica in Antartide con lo scopo di comprendere e prevedere gli effetti del cambiamento del clima; mentre l’Australian Antarctic Division e il British Antarctic Survey sviluppano sistemi di identificazione individuale e rilevatori miniaturizzati per il monitoraggio globale degli uccelli, il progetto nazionale di ricerca in Antartide e la sua commissione scientifica non riescono proprio a comprendere che le ricerca biologica non può essere “mordi e fuggi” e che senza progetti a lungo termine e senza continuità nel tempo non è possibile comprendere i meccanismi che stanno alla base delle complesse interazioni tra gli organismi e il clima.

A meno che non si studino i batteri, le ricerche sull’ecologia delle popolazioni animali necessitano di tempi lunghi (almeno quanto la vita dei soggetti studiati, ossia 12 anni nel caso del pinguino di Adelia!) e la loro interruzione rende vani gli sforzi fatti fino a quel momento e comporta la perdita di una enorme mole di dati. Il progetto senese era, infatti, stato dichiarato morto già due volte, e adesso può ripartire solo grazie alla tenacia, perseveranza e caparbietà di Silvia Olmastroni e di un manipolo di “ricercatori” italiani, tutti precari (come Silvia) scaraventati in ogni dove dall’implosione in un buco di 44 milioni di euro del bilancio (di esercizio!) di una delle più antiche e prestigiose università europee. Ma la tenacia e perseveranza pagano, almeno in soddisfazioni scientifiche, e così i giorni prima della partenza per questa nuova spedizione sono stati quanto mai concitati per completare l’ultima fatica: una pubblicazione sulla rivista Frontiers in Ecology and Evolution che dedicherà un intero numero alle più recenti scoperte in fatto di clima e animali e al quale i ricercatori senesi sono stati invitati a contribuire.

È proprio così, la crisi dell’Università di Siena ha spazzato via un intera generazione di ricercatori ma non la loro voglia di dedicarsi alla loro passione, e così, grazie anche alle collaborazioni internazionali e a colleghi italiani oggi all’estero (come Giacomo Tavecchia, esperto di modelli di popolazione, approdato all’Istituto Mediterraneo di studi avanzati di Maiorca dopo un dottorato a Montpellier e un post dottorato a Cambridge, o a Tosca Ballerini già dottoranda a Siena e reclutata, seduta stante, dopo la presentazione dei risultati della sua tesi ad un congresso dal Centro di Oceanografia Fisica della Virginia e oggi in Francia all’Istituto Mediterraneo di Oceanografia di Tolone), la ricerca ha potuto continuare e concretizzarsi.

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Nicoletta Ademollo (Foto Valerio Volpi)

Silvia e Nicoletta torneranno in Antartide dopo quattro anni dall’ultima spedizione e ripartiranno ancora una volta, le ripartenze si sa sono sempre ben più dure delle partenze, ma le due ricercatrici hanno alle spalle una solida esperienza (sei spedizioni Silvia e due Nicoletta) che consentiranno loro di trattare il disagio dell’isolamento e della lontananza dagli affetti, come una presenza da rispettare e tollerare tenendo sempre in mente che l’estate antartica è la più breve delle stagioni e che il tempo disponibile (quello bello in particolare!) è sempre insufficiente rispetto al lavoro da svolgere.

La loro vita di tutti i giorni al campo non sarà come quella “comoda” dei ricercatori alla base, scandita dei pasti di un ottima cucina e dagli orari necessariamente rigidi per non lasciare che l’organismo venga ingannato dalle 24 ore di luce continua; ma sarà dettata dalla cura del generatore di elettricità e della radio trasmittente nella consapevolezza che il campo non è raggiungibile né via terra né via mare e che una tempesta di vento polare o una semplice nebbia, che rende tutto indistintamente bianco, potrebbe costringerle a giorni di isolamento. Frequenti, però, saranno i contatti via telefono satellitare con i ricercatori stranieri, il team italiano, infatti, opererà coordinandosi con altri due gruppi di ricerca uno neozelandese, posto diverse centinaia di km a nord a Capo Hallet e uno americano posto a tre ore di volo a sud, sull’Isola di Ross, tutti condividono finalità e metodi ed hanno lo stesso compito: posizionare una quarantina di geolocalizzatori (rilevatori di posizione) miniaturizzati su altrettanti pinguini. I geolocalizzatori immagazzineranno gli spostamenti degli animali per un anno intero, fino alla prossima estate quando, Università e Commissione scientifica nazionale per l’Antartide permettendo, dovranno essere recuperati, allora potremo capire qualcosa di più della biologia di questi simpatici e affascinanti uccelli così strettamente legati ai ghiacci marini e così sensibili ad ogni variazione della temperatura del nostro pianeta.

La missione di Silvia e Nicoletta si concluderà quindi in febbraio, quando è previsto il loro rientro, che non sarà da meno dell’andata; per accordi tra nazioni a riportare le due ricercatrici sarà una nave cinese che dopo una settimana di navigazione attraverso il Circolo polare antartico, i 50° urlanti e i 40° ruggenti, arriverà al leggendario porto di Lyttelton in Nuova Zelanda dove da sempre partono e arrivano le navi dirette al Polo Sud.

Qualcuno dice che le grandi spedizioni naturalistiche appartengono al passato, che la ricerca sul campo è solo descrittiva, che per fare scienza occorrono laboratori e computer, che i giovani ricercatori sono polli di allevamento, che le scienze naturali non sono “Hard Science”, qualcuno che probabilmente ha avuto una facile carriera accademica in Italia e che sicuramente ha perso, o forse non ha mai provato la curiosità interiore che motiva e spinge alla ricerca. Buon viaggio Silvia e Nicoletta!

 

* Francesco Pezzo è un biologo che si occupa di fauna selvatica e di conservazione della natura. Dottorato di ricerca in Zoologia presso l’Università di Oxford, è stato docente di Ecologia animale e ornitologia all’Università di Siena, ricercatore presso l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) di Bologna. Ha partecipato a progetti di ricerca in Italia e all’estero tra i quali quattro campagne italiane in Antartide (ENEA) e tre spedizioni in Himalaya (EvK2-CNR). Dal 2009 collabora con il Museo di Storia Naturale di Grosseto e segue progetti di ricerca e monitoraggio degli uccelli nel Parco Regionale della Maremma e nelle Oasi WWF della Toscana meridionale.